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VERSO UNA TEORIA LINGUISTICA DELLA TRADUZIONE: INTERVISTA A LAURA SALMON

POR UMA TEORIA DA TRADUÇÃO LINGUÍSTICA: ENTREVISTA COM LAURA SALMON

TOWARDS A LINGUISTIC THEORY OF TRANSLATION: INTERVIEW WITH LAURA SALMON

ABSTRACT

Il campo dei Translation Studies (TS) ha cominciato a venire sistematizzato alla fine degli anni Sessanta, dopo un convegno internazionale organizzato in Slovacchia, a Bratislava, da Anton Popovič, che avrebbe portato alla pubblicazione della raccolta The Nature of Translation: Essays on the Theory and Practice of Literary Translation. Da quel momento in poi, ha preso a radicalizzarsi il divario tra la ricerca euroamericana sulla traduzione, che si concentrava per i TS in modo netto sulla storiografia, e la ricerca slava che, dal secondo dopoguerra, esprimeva un notevole interesse per la linguistica e per la formalizzazione. Con un approccio che fonde entrambi gli aspetti, la Prof. Laura Salmon dell’Università di Genova (Italia), nel suo Teoria della Traduzione, sottolinea l’importanza della ricerca linguistica e, pur implicitamente, invita a una “decolonizzazione” di quest’area del sapere, condizionata dall’interesse dominante per i Cultural Studies e per la cultura occidentale. Ce lo spiega in quest’intervista per la rivista Trabalhos em Linguística Aplicada.

Parole chiave; Studi dela Traduzione; Translatologia; Teoria dela Traduzione; Linguistica; Pedagogia dela Traduzione

RESUMO

O campo dos Translation Studies (TS) começa a ser sistematizado a partir do final dos anos 1960, após uma conferência internacional organizada em Bratislava (Eslováquia) por Anton Popovič, que resultaria na publicação da coletânea The Nature of Translation: Essays on the Theory and Practice of Literary Translation. A partir de então, começa a se aprofundar o abismo entre as pesquisas euro-americanas sobre o tema, que se voltam muito mais a historiografias da tradução, e as eslavas, que desde o pós-Segunda Guerra tinham viés muito mais linguístico. Com uma abordagem que mescla as duas vertentes a professora Laura Salmon, da Universidade de Gênova (Itália), busca enfatizar em sua Teoria della Traduzione a importância da pesquisa linguística e, implicitamente, de uma “descolonização” dos pontos de vista nessa área do saber, como explica nesta entrevista à revista Trabalhos em Linguística Aplicada.

Palavras-chaves:
Estudos da Tradução; Translatologia; Teoria da Tradução; Linguística; Pedagogia da Tradução

ABSTRACT

The field of Translation Studies (TS) began to be systematized at the end of the 1960s, after an international conference organized in Bratislava (Slovakia) by Anton Popovič, which would result in the publication of the collection The Nature of Translation: Essays on the Theory and Practice of Literary Translation. From then on, the gap between Euro-American research on the subject, which focuses much more on translation historiographies, and Slavic research, which since the postSecond World War has a much more linguistic tendency began to deepen. With an approach that mixes both aspects, Professor Laura Salmon, from the University of Genoa (Italy), seeks to emphasize in her Teoria della Traduzione the importance of linguistic research and, implicitly, of the “decolonization” of this area of knowledge, as she explains in this interview for the journal Trabalhos em Linguística Aplicada.

Keywords:
Translation Studies; Translatology; Translation Theory; Linguistics; Translation Pedagogy

INTRODUZIONE

Laura Salmon è Professore Ordinario presso l’Università di Genova e la sua carriera è iniziata presso l’Università di Bologna, dove è stata Ricercatore e Professore Associato di Slavistica e di Traduzione dal Russo. Il suo trasferimento a Genova, nel 2001, ha coinciso con l’inaugurazione della prima cattedra italiana di Teoria della Traduzione, che Salmon ricopre ancora oggi.

L’esperienza quarantennale di traduzione della letteratura russa – che comprende le opere di Sergej Dovlatov, genio dell’umorismo sovietico, e di classici come Fëdor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Ivan Turgenev ecc. – è stata fondamentale per la formazione teorica della studiosa. Proprio grazie all’esperienza traduttiva con testi complessi, Salmon ha iniziato a cercare di formalizzare un modello teorico della traduzione fortemente incentrato sulla linguistica, alla ricerca dei parametri che gestiscono i processi traduttivi più efficaci e che tributano rigore procedurale al concetto stesso di efficacia traduttiva. Il suo libro Teoria della traduzione (2017) – dedicato sia alla metodologia, sia alla storia della teoria e diffuso nei corsi universitari in tutta l’Italia - si riconduce non solo alla ben nota teoria occidentale, ma anche alle principali teorie sviluppatesi nel mondo slavo e quasi ignote al mondo occidentale1 1 Con la Rivoluzione d’Ottobre e fino agli anni Ottanta, sulle teorie della traduzione sono state scritte in diverse lingue slave opere fondamentali (il primo libro dal titolo Teoria della traduzione di O.M. Finkel’ era uscito nel 1929 a Char’kiv). . Lei stessa sottolinea (p. 13) uno dei motivi di questo successo: «la bibliografia di riferimento potrà in parte assolvere questo volume dal ‘centralismo occidentale’ che le barriere linguistiche (e la presunzione culturale) hanno imposto alla maggior parte delle monografie euro-americane». Il successo del volume suggerisce, inoltre, che da tempo ci si aspettasse, almeno in Italia, un approccio alla teoria della traduzione più rigoroso ed epistemologicamente coerente. Come scrive Salmon in un saggio del 2020 (p. 46), la traduzione ha avuto un percorso difficile nei programmi di studio dell’istruzione universitaria italiana a partire dagli anni Settanta-Ottanta, quando «l’insegnamento della ‘Lingua straniera’ [...] era delegato dai docenti titolari (di Letteratura) a ‘lettori’ (nativi) o ad ‘assistenti’ che ambivano a diventare i futuri docenti-letterati» (ivi) fino alla sua istituzione come disciplina didattica e scientifica a metà degli anni Novanta attraverso un atto burocratico che avrebbe reso migliore il corso di questi studi.

Oggi, nel campo della traduzione, nell’università italiana è cambiato tutto: gli studenti imparano ancora facendo e sbagliando, ma si addestrano prima di misurarsi con la realtà editoriale e professionale; e, soprattutto, vengono offerti ai futuri professionisti parametri di riferimento e collaudate tecniche di soluzione dei problemi (ivi, 47). Salmon, tuttavia, rileva che tra gli studiosi di letteratura “prevale troppo sovente la diffidenza, basata su pregiudizi e fraintendimenti, verso la Teoria della Traduzione (TT). Alcuni confondono la ‘teoria’ con la ‘storia’ e/o guardano alla linguistica con un’ostilità immotivata e anacronistica” (ivi, 40). Questo stesso saggio si apre con un’allegoria eloquente alla storia della medicina, pure assoggettata alla diffidenza di chi si sentiva oppresso dall’esigenza di sterilizzare il bisturi e sosteneva che i medici erano guidati non dalla scienza, ma dall’“ispirazione” e dal “talento”. In realtà, sostiene Salmon (ivi, 43), il rifiuto delle procedure deontologiche implica arbitrarietà, non creatività:

«Più i testi sono complessi (ad esempio, la poesia russa del primo Ottocento), più la teoria è necessaria, perché la formalizzazione del potenziale d’innesco psico-cognitivo di un testo è più complessa nella letteratura creativa rispetto ai testi ad alta stereotipia»2 2 Cfr. anche Salmon, Laura, Su macro- e microtipologie testuali: epistemologia, funzionalità e didattica della traduzione, in Patrizia Mazzotta, Laura Salmon (a cura di), Tradurre le microlingue scientifico-professionali, Torino, UTET, pp. 29-48; Id., Teoria della traduzione (2017), cit., p. 50-57. .

Come dimostra la stessa storia della linguistica, l’assenza di concetti ben definiti e di un dialogo trasversale porta a un “doppio lavoro”, sviluppando le stesse ricerche in punti opposti del globo, raddoppiando i tempi delle scoperte3 3 Ad esempio, l’idea fondamentale di “radice” o “radicale”, che ha impiegato così tanto tempo ad emergere nel mondo occidentale, esisteva già da tempo nel mondo mediorientale (ed è solo uno degli innumerevoli esempi di ritardi nella storia dello sviluppo della linguistica in Europa). . È quindi auspicabile e urgente che le teori vengano tradotte e diffuse al di fuori di uno spazio geoculturale ristretto al Nord America e all’Europa occidentale. Il tentativo di ridurre il sapere alle teorie scritte in lingua inglese avrà, a lungo andare, effetti devastanti. Anche in questo caso, la traduzione potrebbe essere il mezzo più efficace per contrastare l’imbarbarimento culturale di un Occidente monolinguistico e autoreferenziale.

Marina Darmaros (M.D.): Nel suo lavoro mi sembra che Lei distingua tra i Translation Studies come campo più storico-politico-sociologico e la Teoria della Traduzione o Traduttologia come campo più linguistico. È così? Potrebbe parlarne?

Laura Salmon (L.S.): In realtà, la Teoria della Traduzione comprende la Traduttologia, che ne è la componente più interessata alla linguistica e ai processi traduttivi. I “Translations studies” o TS, sono invece un’etichetta che si hanno dato a se stessi degli studiosi che volevano tener separati gli studi sulla traduzione (letteraria) dalla linguistica, rendendo in sostanza gli studi sulla traduzione un campo di “Cultural Studies”, ovvero una branca di indefinibile ampiezza umanistica. Questo era lo scopo soprattutto di quegli studiosi che oggi in russo si chiamerebbero “kul’turologi”, cioè cultori del generico funzionamento delle culture. I fondatori dei TS trascuravano non soltanto la linguistica, ma anche la lingua in senso stretto. Come se la lingua non avesse a che fare con la traduzione! Ho incontrato persone di questo gruppo che traducevano da lingue in cui non sapevano parlare e che non capivano: ancora adesso per fare un nome, Lawrence Venuti, che è un rappresentante dei Translation Studies da decenni, traduce dall’italiano ma non lo sa parlare correntemente. Un mio studente mi ha chiesto: “Ma come fa a tradurre?” Ecco, appunto… Quando ero studentessa, tuttavia, ci dicevano: “l’importante è sapere bene la lingua madre, la lingua di arrivo”. L’etichetta scelta dai TS. per distinguersi ormai tende a essere usata da tutti, così si perde il ruolo fondamentale della linguistica. Ecco perché prediligo, in contrapposizione, l’etichetta inglese di Translation Theory, che ovviamente comprende i Translations Studies, ma anche tutto il resto.

M.D.: La ricerca sulla Teoria della Traduzione in Russia è un fenomeno recente nella ricerca accademica in Brasile, ma in Italia sembra già ben consolidata. Il suo libro Teoria della Traduzione è molto acclamato e utilizzato in molti corsi di traduzione in tutta Italia, non solo nelle Sezioni di Russo. Questo libro rivela nuovi aspetti, è molto meno occidentalizzato, per così dire, rispetto agli altri studi sulla traduzione. Potrebbe raccontare come si è svolto il suo percorso in questo campo?

L.S.: Ho iniziato a tradurre giovanissima, fin da studentessa, in un’epoca in cui agli studenti la possibilità di tradurre veniva offerta dai professori, che si riservavano il ruolo di curatori o di critici delle opere, cosa considerata l’unica accademicamente “seria”, mentre la traduzione era vista un banco di prova per accedere in seguito a un lavoro più rispettabile. Ho avuto alcune opportunità molto precoci di tradurre e la prima cosa che ho capito è che stavo facendo qualcosa di cui non avevo la più pallida idea e che tutti facevano esattamente così. Cioè, era come se mi mettessi a fare una torta di mele, prendendo delle mele, e poi facendo una specie di pasta a caso. Pur cercando di fare il mio meglio, avevo la totale consapevolezza di non sapere neanche che cosa fosse il “meglio” (e il “peggio”), mi trovavo nella totale assenza di criteri. Imitavo quello che era stato fatto dagli altri: note a piè di pagina, traduzioni che cercavano di essere, come si diceva una volta, “aderenti al testo”, cioè “letterali” ecc. Quello che cercavo di fare un po’ più degli altri era non andare contro le regole della mia lingua. E questo senza rendermene conto, sempre nella sostanziale indifferenza per le precise sfumature del testo russo. Molto tardi, mi sono resa conto che nel testo letterario, se è stato deciso di usare delle parole, questo implica che sono state escluse tutte le alternative. Quello che scrivevo non avrebbe dovuto essere quello che l’autore aveva scartato.... Nel mio libro [Teoria della Traduzione, 2017] c’è proprio un esempio dal russo, ovvero l’incipit della Valigia di Sergej Dovlatov: “V OVIRe èta suka mne i govorit”4 4 “Questa frase, apparentemente semplice, può essere usata come ‘micro-manuale’ di traduttologia. [...]. L’unico modo per rifare la ‘stessa cosa’ era selezionare un traducente con la stessa f-marcatezza, scegliendo di tradurre: - con un’esplicitazione l’acronimo “OVIR” (che sta per “Sezione visti e registrazioni”, ma indicava in epoca sovietica il luogo dove si chiedeva il passaporto, si registravano gli stranieri e si otteneva il ‘visto per l’espa- trio’); la scelta che quell’esplicitazione fosse ‘Ufficio per l’espatrio’ e non ‘Ufficio passaporti’; - ‘suka’ con ‘stronza’ e non ‘cagna’ (come suggeriscono i dizionari); la scelta di tradurre con il presente il russo ‘govorit’ (cosa non scontata, perché in russo non esiste coerenza temporale nelle narrazioni e spesso il presente si alterna al passato nello stesso paragrafo, quindi spesso si rende con il passato remoto); - la ‘i’ polisemica del TP (‘i govorit’) – che potrebbe significare, in generale, ‘anche’ oppure ‘e’ – con ‘viene a dirmi’ (perché qui ha valore fraseologico); - l’aggettivo dimostrativo ‘èta’ non con ‘questa’, ma con ‘quella’ (evitando un calco che i traduttori italiani spesso assecondano a dispetto dell’orecchio interno alla nostra lingua) eccetera.” (2017, p. 195). . Solo molto più tardi mi sono resa conto di quanto fosse importante capire che non aveva scelto di dire “sučka skazala” oppure “ta suka. In cosa, dunque, posso rispettare e ricreare “lo stile di Dovlatov” cercando di ricodificare esattamente quello che lui aveva scelto, ma soprattutto non usando tutto quello che aveva “deselezionato”. Questo l’ho capito molto dopo, grazie a un lungo percorso di riflessione.

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, facevo il mio Dottorato di Ricerca sulla letteratura russo-ebraica, infatti per formazione sono una letterata. Di linguistica, all’epoca, non sapevo assolutamente niente. Nell’anno in cui vivevo a Leningrado per lavorare alla tesi di Dottorato, alla Publičnaja biblioteka spesso ci mettevano parecchio a consegnare i libri. Mentre aspettavo, dunque, potevo accedere accessibili solo a vocabolari e testi di linguistica, tra cui c’erano tanti testi sulla traduzione. Non avevo ancora un’idea che esistesse una “teoria della traduzione”. Solo con gli anni, ho scoperto quanto i Paesi slavi, soprattutto la Russia e l’Unione Sovietica, avessero avuto un ruolo cruciale. Si trattava anche di motivi politici, perché era al mondo l’unico grande Stato veramente multinazionale: Stalin era ossessionato dal mantenimento di tutte le lingue dei popoli sovietici; i popoli sovietici che non avevano la scrittura o una radicata tradizione venivano inclusi nel mondo culturale sovietico mediante traduzioni da e verso il russo, questo conferiva loro gradualmente una dignità anche letteraria. A riflettere sulla traduzione, soprattutto letteraria, era un Paese caratterizzato in modo nettissimo dal fenomeno universalmente noto del “letteraturocentrismo”, che Mikhail Berg associa al concetto di “literaturakratja”, cioè “potere della letteratura”.

L’importanza della riflessione sulla traduzione nei Paesi slavi è certamente nato prima dell’URSS, fin da Pietro il Grande, che aveva addirittura creato un’Accademia per traduttori. Nell’Ottocento Žukovskij, poeta e traduttore, aveva lasciato vari appunti. In URSS, non a caso, pubblicavano non solo serie di raccolte con saggi sulla traduzione e sulla teoria, ma era anche uscita (in due volumi) l’opera Russkie pisateli o perevode [ Gli scrittori russi sulla traduzione]: lì, per ogni scrittore russo, si trova almeno un paio di frasi sulla traduzione. Ma questa non è ancora “teoria della traduzione”, è storia del pensiero ed esiste in tutti i Paesi. La cosa eccezionale è stata la ricerca di un approccio sistematico che implicava di identificare, studiare e descrivere le procedure. Quando Maksim Gor’kij, tra il 1918 e il 1919, ha intrapreso la realizzazione del progetto della casa editrice Vsemirnaja literatura [Letteratura mondiale], cercava di formare gruppi di traduttori che disponessero di istruzioni, almeno di base. Tutto ciò l’ho scoperto mentre facevo la tesi di Dottorato sulla letteratura russo-ebraica.

La mia carriera, in senso burocratico, ha cominciato a progredire su due binari separati che, col tempo, sempre più si sono avvicinati, grazie ai contenuti dei miei studi. Infatti, continuando a lavorare alle traduzioni letterarie, comprendevo che tradurre mi rendeva un critico e un esperto delle opere molto più sensibile ai testi, visto che “entrare dentro la lingua” della letteratura consente di comprendere il meccanismo di selezione e deselezione delle opzioni d’autore: quelli che i formalisti chiamavano “priëmy”, gli artifici, erano propriamente tecniche linguistiche. Certo, possono essere anche retoriche, metriche, ma sono soprattutto linguistiche. Quando traduci, entri dentro la struttura molecolare dell’opera letteraria e non solo nella parte storica che, ovviamente, devi studiare... Io leggo cosa è stato scritto su Anna Karenina, ma, quando traduco il romanzo, vedo cose che anche il lettore più attento non nota. Per esempio, da pochissimi giorni è uscito un nostro libro su Dostoevskij e il paradosso. Ho scritto l’articolo che apre la raccolta, dove parlo di quello che chiamo il “by-prostranstvo”, lo spazio in modalità congiuntiva che è scandito nei testi dostoevskiani dagli innumerevoli “by”, “kak by”, “kak budto”, “slovno”: si tratta di un mondo in sospeso, in cui non si sa mai del tutto se le cose stanno proprio così oppure no. Un lettore  un critico, normalmente, non vedono queste cose, mentre si svelano a chi deve tradurre; pensi: “mamma mia, di nuovo un ‘by’!” Quando semplicemente leggi, non comprendi quanto sia ossessivo questo sistema “congiuntivale” sotteso a tutta la scrittura di Dostoevskij. Il lavoro di traduttrice mi è servito per diventare una letterata migliore. Quindi, non capisco perché mai i letterati dovrebbero essere disinteressati a qualcosa che riguarda direttamente i testi letterari.

Per quanto riguarda la storia del libro, è facile da raccontare. A causa di alcune divergenze con la dirigenza della Scuola Interpreti all’Università di Bologna, ma soprattutto a causa della distanza (abitavo a 360 km di distanza con due bambine) ho iniziato a pensare al trasferimento. L’Università di Genova mi ha offerto un posto, ma a una condizione: dovevo trasferirmi non come slavista, ma per ricoprire la prima cattedra in Italia di Teoria della Traduzione. Quando ho preso servizio a Genova, tra il 2001 e il 2002, non c’era alcun manuale, di fatto esisteva solo qualche libro, ma molto datato. Quindi mi sono messa a scrivere in un solo anno il mio primo libro dal titolo Teoria della traduzione: storia, scienza, professione (Milano, 2003). Era davvero assai difettoso, completamente diverso da quello che ho scritto poi, esattamente 15 anni dopo. Tuttavia, aveva un vantaggio: era l’unico manuale che si potesse utilizzare per quel corso. Posso dire a posteriori che, avendolo scritto in un solo anno, poteva essere anche molto peggiore. Quando è uscito quel libro, nello stesso mese usciva anche quello di Umberto Eco Dire quasi la stessa cosa. Ero terrorizzata, infatti, pensavo: “Quello di Eco sarà molto meglio”. Ma, in realtà, erano due libri diversissimi, In quello di Eco non c’era niente di teorico: era una carrellata di interessanti esperienze sue, ma presentate da una persona che manifestava di ignorare completamente che esistesse al mondo una vera e propria “teoria della traduzione”. Solo nel libro del 2017, tuttavia, scritto dopo un’altra dozzina di anni di studio intensissimo e di esperienza didattica in aula, ho capito cosa dovevo e potevo fare per aiutare i miei studenti. E sono molto debitrice nei loro confronti; ognuno di loro, salvo rare eccezioni, mi insegna qualcosa e mi aiuta a diventare un’insegnante migliore.

Per quanto riguarda, invece, l’interesse per la traduzione degli slavisti italiani, è proprio vero, è nato molto precocemente, ben prima che io diventassi una studiosa. Ci sono stati anche lontani convegni, obiettivamente superficiali, ma assolutamente innovativi. A diffondere tra gli slavisti l’interesse per la traduzione letteraria ha molto contribuito Evgenij Michajlovič Solonovič, traduttore di poesia italiana in russo, che è venuto regolarmente in Italia a tenere seminari o conferenze. Lo stesso è accaduto anche in altri ambiti degli studi slavi; parlo soprattutto del russo perché è stabilmente la lingua che ha e ha avuto più studenti e più docenti in Italia. Del resto, trent’anni fa, la slavistica italiana era piuttosto solidale nella visione compatta e trasversale dei cosiddetti “Slavic Studies”. Adesso, ovviamente, è un momento particolarmente brutto per la coesione slava, che ha cominciato a sgretolarsi già ai tempi del conflitto in Jugoslavia. Il mondo slavo da sempre è soggetto a violenti moti alterni di coesione e, soprattutto, di disgregazione. Forse anche per questo, quando ero studentessa, cercavano di sensibilizzarci a una visione unitaria e coesa, magari alla differenziazione tra “Slavia ortodossa” e “Slavia Cattolica”, ma in modalità sostanzialmente dialogica. O almeno a me così sembrava...

Nel curriculum universitario, ad esempio, la mia seconda lingua era il polacco: ho studiato tantissimi anni lingua e letteratura polacca e credo che questo mi sia servito tantissimo a diventare una russista migliore, infatti mi ha aiutato a capire molti aspetti del cosiddetto “russkij mir” [il “mondo russo”], perché sia così diverso dalle altre visioni slave nazionali. Ma, certamente, è anche vero che, proprio dal punto di vista linguistico, quello che ho imparato traducendo dal russo è esattamente quello che può servire per tradurre dal polacco (ammesso di avere un sufficiente livello di bilinguismo, che non è il mio caso). Uno dei miei professori, nonché caro amico, Pietro Marchesani, che purtroppo da tempo non c’è più, è stato un grande traduttore dal polacco, soprattutto di poesia (ha tradotto Wisława Szymborska e altri grandi autori, comme Zbigniew Herbert): ogni tanto, lo aiutavo a cercare soluzioni a problemi complessi: lui conosceva molto bene il polacco e io no, ma potevo offrirgli dei criteri, il parametro di riferimento per risolvere ogni specifico problema. A volte discutevamo, ad esempio, sulla resa dei nomi propri, e penso che, come per le lingue slave, anche nel caso del portoghese, sia molto importante porsi i problemi di ricodifica dei nomi avendo le idee chiare sulle tecniche di traduzione. Lo dico perché mi sono occupata a lungo di traduzione dell’onomastica; basta pensare che il modo in cui vengono chiamate le persone, e anche i personaggi dei testi letterari, offre una quantità d’informazioni: cambiando un diminutivo esprimiamo il nostro atteggiamento verso la persona, possiamo esprimere la gerarchia, emozioni come la rabbia o l’affetto... L’italiano purtroppo è una lingua un po’ artificiale, nata da diversi dialetti senza ereditarne la secolare plasticità popolare. Fino alla comparsa della televisione nelle case italiane, negli anni Cinquanta e Sessanta, quasi tutti parlavano un dialetto in Italia. Io appartengo alla prima generazione che ha imparato il dialetto solo in modalità passiva, senza mai doverlo parlare. Oggi, tranne qualche regione e solo in alcuni ambienti, un giovane non sente il dialetto da nessuna parte, né dai genitori, né dagli insegnanti, né nei negozi, raramente dai nonni. La televisione è stata una scuola d’italiano per tutti, ma è chiaro che il cosiddetto “italiano standard” è molto recente rispetto ad altre lingue. I nomi propri lo dimostrano: in napoletano, in siciliano, come in russo, polacco o portoghese, ci sono diminutivi, nomignoli  sfumature cui ricorrere, in certi casi, per creare in traduzione forme analoghe.

M.D.: Quindi in Italia i nomi e i cognomi sono solitamente tradotti? Ho posto questa domanda pensando, ad esempio, a Dostoevskij, i cui personaggi portano nomi altamente significanti che, di solito, vengono spiegati in nota nelle traduzioni brasiliane...

L.S.: Proprio su questo ho scritto un libro in russo, uscito nel 2002, dedicato alla traduzione dei nomi propri, Ličnoe imja v russkom jazyke. Semiotika, pragmatika perevoda [Il nome proprio in russo. Semiotica e pragmatica della traduzione], poi tradotto integralmente in italiano per la rivista bolognese Quaderni di semantica. Distinguere i casi è fondamentale. Se un nome è ormai attestato, ad esempio, “Karenina”, non lo si può più “toccare”. Un esempio che faccio spesso è quello di Radion Romanovič Raskol’nikov: il nome si associa a Rodi/Grecia, il patronimico a Roma, mentre il cognome Raskol’nikov evoca chiaramente il “raskol”, lo scisma. Raskolnikov suonerebbe come Skizov in italiano. Quindi, la scelta del nome Rodion Romanovič Raskol’nikov dà già idea di una persona “lacerata”. Queste informazioni, dato che il nome non si può toccare, si possono dare solo nella postfazione. Quello che ho stabilito a un certo punto è un principio banalissimo, tra l’altro mi ha ispirato molto anche il cinema, cioè il doppiaggio. Quando un dialoghista fa la traduzione, certo non può fare le note a piè di pagina; e se loro si arrangiano, perché non dovremmo poterci arrangiare anche noi? Mi dico: se uno sta leggendo Dostoevskij, non ha voglia di essere interrotto e vedersi rompere l’immedesimazione per leggere da un’altra parte che “quell’edificio è stato costruito nell’anno tal dei tali”. Come non s’interrompe un film, così non s’interrompe la lettura: l’idea è che le note del traduttore non siano deontologicamente corrette, mentre si può fare una lunga nota finale, ovvero un metatesto che sta fuori dal romanzo, dove si spiega cosa voglia dire il nome Raskol’nikov. Il traduttore può decidere quali informazioni dare prima, nella prefazione, e quali dare nella postfazione. Personalmente, opto sempre per la postfazione; questo scaturisce da un’altra scoperta interessante (confermata anche dai test): quando noi italiani leggiamo un romanzo italiano, quando Lei legge la letteratura brasiliana o i russi la letteratura russa, raramente ci si accorge in modo cosciente delle associazioni evocate. Migliaia di russi hanno letto Karenina senza prendere coscienza che “kara” è “vendetta”, “nemesi”. Solo quando riveli l’importanza di un nome, allora convengono: “ah già, il raskol… è vero!”. Ricordo, ad esempio, che da studentessa seguivo un corso sulla Coscienza di Zeno di Svevo e il professore ci spiegava che il nome Zeno crea un priming per “zero” e che Cosini si associa a “cosa piccola”. Se si pensa che le quattro sorelle in quel romanzo hanno nomi che iniziano in “A”, risalta anche la “Z” di Zeno. Quando, molti anni prima, avevo letto il libro, non me n’ero accorta. Ma la più importante differenza che ho rilevato per una teoria della traduzione dei nomi propri è tra narrativa finzionale non realistica (fiabe, favole, barzellette, miti ecc.) e narrativa realistica: nella prima, i nomi vanno ricreati in modo che funzionino come quelli del TP, nella seconda, dipende dalla fama del testo: se è già noto e tradotto, si applicano tecniche molto prudenti, come l’esplicitazione, ma solo se il testo lo consente. Per esempio, per rendere come certi derivati degli antroponimi abbiano carattere cameratesco o confidenziale, si può esplicitare: “come si permette di chiamarmi così…”. Nella fiction non realistica, abbiamo una lunghissima tradizione di ricodifica, per lo più semantica, di antroponimi e toponimi. In italiano è Cenerentola, non puoi lasciarla col nome tedesco, lo stesso per Biancaneve... Infatti, nelle fairy tale si è sempre intervenuti. Lo stesso avviene con la satira fantastica, penso a quella di Saltykov-Ščedrin, ad esempio. Dunque, ogni caso va affrontato ponendosi la questione: più che dire cosa sia giusto e cosa sbagliato, io insisto che non si facciamo mai le cose in modo arbitrario.

M.D.: Quali opere lei ritiene essenziali per chiunque sia interessato alle teorie della traduzione russa e slava?

L.S.: Ci sono tantissime opere importanti, ma bisogna distinguere due campi di studio completamente diversi. Il primo è il campo storicistico, che riguarda le nozioni, per così dire, dichiarative, s’impara chi ha scritto cosa; questo è importantissimo per la cultura, anzi, direi per l’acculturazione del traduttore. Questi studi storicistici, tuttavia, non dicono quasi niente su come tradurre, dicono molto su come si sia evoluto il comportamento sia dei teorici, sia dei traduttori. L’altro campo, invece, riguarda i processi della traduzione, cioè cosa fa un traduttore per avere e seguire le regole dell’arte e impone di riflettere sullo scopo della traduzione. La riflessione, dunque, riguarda sempre i processi traduttivi, ovvero, perché mi comporto linguisticamente in un certo modo quando ho un progetto X e quali processi vanno applicati per ottenere le regole dell’arte nel caso X. Il mio libro italiano che lei ha letto, Teoria della traduzione, che dal 2020 è disponibile in russo (è uscito a Mosca), contiene indicazioni per rispondere con una certa precisione alla sua domanda: considera entrambi i campi, quello storicistico e quello che inquadra le regole dell’arte, i processi. La mia idea e la mia speranza è che il mio approccio non sia utile solo agli slavisti, ma a tutti i traduttori. E questa affermazione richiede un’altra precisazione, relativa all’universalità della teoria, di qualsiasi modello teorico. Infatti, uno dei limiti che rinvengo in tanti approcci sia storici, sia teorici è che sono spesso circoscritti, limitati, per lo più, a esperienze legate sempre alle lingue europee occidentali, senza comprendere proprio le lingue slave che, come Lei ben sa, sono lingue indoeuropee, ma vengono considerate in modalità assolutamente ideologica “di seconda classe”. E invece, proprio le lingue slave possono aiutare a comprendere come superare interessanti, quasi drammatici fenomeni di asimmetria, come la presenza (esclusiva delle lingue slave) dell’aspetto verbale su base binaria, ma anche prefissale: la categoria dell’aspetto rende le lingue slave uniche al mondo e, in questo, profondamente diverse dalle lingue indoeuropee. Da decenni riscontro, ad esempio, che la maggior parte degli errori dei miei studenti (che, ovviamente, erano gli errori miei di un tempo) riguardano l’aspetto verbale. L’importante, tuttavia, resta la capacità di comprendere l’asimmetria tipologica tra lingue che, in realtà, hanno moltissime strutture e radici in comune.

In sintesi, spero che le opere citate nel libro Teoria della traduzione siano anche più di quelle che possono aiutare un traduttore ad ottenere una solida base professionale sia sugli studi storici sulla traduzione, sia sulle riflessioni relative ai processi, di cui il praghese Jiří Levy, con la sua chiara intuizione della necessità di un decision making process, è stato un paladino. Nel manuale cito molti testi, ma quello, assieme ad altri, appartiene ai testi irrinunciabili, quelli che insegnano a tradurre e non solo a sapere chi pensa cosa. Il campo degli studi sui processi è fondamentale perché richiede l’integrazione delle competenze letterarie con quelle relative a lingua e linguistica.

In tal senso, potrei dirle che il termine “filolog” - che indica tanto i letterati, quanto i linguisti - è usato in tutte le lingue slave per definire una sensibilità trasversale ai testi e alla lingua in cui sono scritti. Poi si può essere “istorik literatury” [storico della letteratura], o “yazykoved” [glottologo], ma il filolog non prova mai alcun disprezzo, né alcuna diffidenza per la linguistica, mentre in Occidente questo disprezzo è diffuso e connaturato ai letterati che, talvolta, tendono a trasmetterlo ai loro allievi. Insomma, qualsiasi opera che traduciamo, per quanto sia “letteraria”, per quanto sia scritta in terzine dantesche, è scritta in lingua: dobbiamo avere approfondito molto le conoscenze su come questa lingua funziona. Un traduttore letterario ricodifica lingua, come può pensare che la linguistica gli serva meno degli studi critici sull’autore o sulla metrica?

M.D.: La tradizione della traduzione dalla lingua russa in italiano esiste da almeno un secolo ed è abbastanza forte. Nel mio recente periodo di ricerca post-dottorato presso l’Università di Bologna, sono rimasta molto colpita dalla quantità di traduzioni dal russo, e di opere estremamente contemporanee, presenti nelle librerie. Potrebbe parlarci brevemente di questa tradizione e dei collegamenti tra Russia e Italia?

L.S.: Questo è un argomento che con la Teoria della Traduzione ha a che fare sono indirettamente: infatti, la sua domanda, in fondo, riguarda la Storia della Letteratura, anzi, direi, la storia della cultura editoriale in Italia. La cultura editoriale in Italia è sempre stata attenta ai grandi classici russi, perché rientrano tra i più grandi libri mai scritti nella storia della cultura umana. La prosa di Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev, ma quella di Puškin è stata tradotta direttamente dal russo fin dalla prima metà del Novecento, anche se facevano comodo ai traduttori i testi delle traduzioni in francese e inglese. Del resto, in Francia c’era una diaspora russa assai colta, in grado di tradurre dal russo in francese.

M.D.: È interessante notare che un fenomeno simile di mediazione delle traduzioni dal russo al francese si è verificato anche in Brasile…

L.S.: Davvero interessante. Per quanto riguarda l’Italia, le intermediazioni hanno portato a traduzioni particolarmente discutibili, da cui si percepiva la totale mancanza di bilinguismo sofisticato del traduttore che, talvolta, la lingua la conosceva in modo piuttosto primitivo. Vorrei menzionare comunque il ruolo della politica editoriale di Einaudi e degli Editori Riuniti, ma anche di BUR e dalla casa editrice Slavia, su cui sono stati condotti dalla Slavistica italiana studi importanti. Almeno fino agli anni Settanta, quello della cultura italiana era un mondo molto vicino, culturalmente e politicamente, a quello sovietico, un mondo “di sinistra”, in parte legato anche al Partito Comunista Italiano. Quindi, l’interesse per la Russia, come centro della cultura sovietica, era altissimo ed era impressionante quanti scrittori sovietici contemporanei venissero tradotti in italiano. Era possibile perché, all’epoca, editori come Giulio Einaudi non badavano tanto ai guadagni, quanto ad una vasta politica culturale. Poi tutto è radicalmente cambiato, eppure, il piccolo, ma attivissimo popolo dei lettori italiani era diventato nel frattempo molto più esigente e raffinato e, paradossalmente, il mercato delle traduzioni dal russo è in piena attività persino oggi. Ovviamente, non va dimenticato l’impulso che alla Slavistica italiana ha dato la perestrojka, che ha permesso che il numero degli studenti di russo in Italia decuplicasse.

Quello che mi preme sottolineare è che la quantità delle traduzioni non ha nessuna relazione, neanche casuale, con la qualità. Anzi, è addirittura sorprendente come, con tante traduzioni, non ci sia stato alcun diffuso miglioramento. Ma, ripeto, qualsiasi miglioramento implica la consapevolezza delle regole dell’arte. Il problema delle traduzioni dal russo in Italia è che sono state fatte, fino a tempi recenti, in modo casuale, nel migliore dei casi, secondo intuito. Viceversa, la scelta degli autori non era mai causale e poteva dipendere dai rapporti e delle preferenze degli editori che talvolta, come Einaudi, incontravano gli scrittori russi: qualcuno ti regalava un libro o te lo spediva, e tu lo traducevi. Alla Einaudi lavorava, ad esempio, Vittorio Strada, edotto su ciò che avveniva in URSS, pur avendo le proprie predilezioni (il suo allontanamento dall’ideologia comunista, ad esempio, ha cambiato molte cose, creando varie discussioni all’interno della casa editrice e persino sulla stampa). Ma, ripeto, se la scelta dei testi da tradurre e del momento in cui tradurli non erano mai casuali, la tipologia della traduzione e la sua qualità era del tutto casuale e casuali erano anche i traduttori. Le traduzioni venivano affidate alle persone in base ai motivi più strambi. Bastava che uno avesse un nome slavo, che fosse stato qualche giorno in Russia, che avesse una parente russa e vinceva la concorrenza sull’italiano laureato in letteratura russa... Nessuno si poneva il problema dei requisiti. Del resto, neanche noi laureati in letteratura russa, come lo stesso Tommaso Landolfi, davamo garanzie dell’impeccabile bilinguismo che serve a leggere un testo in russo con una competenza “native-like.

Al tempo stesso, la crescita e la maggior apertura della Slavistica italiana ha consentito a me stessa di poter diventare una studiosa di traduzione senza essere troppo penalizzata (e oggi, anzi, sono apprezzata, mio malgrado, soprattutto per gli studi sulla traduzione). Io credo di essere, per quanto paia immodesto, un tipico prodotto della miglior Slavistica italiana, un’erede di maestri di eccezionale spessore e valore, di grandissima erudizione e originalità nell’approccio alla disciplina nel suo complesso. Non sono certa, ad esempio, che in altri ambiti ci sia stata così tanta originalità: i miei maestri, infatti, erano slavisti davvero trasversali, potevano insegnare letteratura russa o polacca, filologia o ecdotica, ma conoscevano la storia di tutta la Slavia ed erano, al tempo stesso, coltissimi nell’ambito delle altre letterature europee. Cè sempre stata “aria di comparatismo” nella Slavistica italiana.

M.D.: Quali progetti legati a quest’area di ricerca ha attualmente, cosa pensa di fare nel futuro? C’è qualche libro in uscita prossimamente? Prevede Convegni o altri eventi?

L.S.: Il libro che sto scrivendo è assolutamente interdisciplinare, riguarda il rapporto tra etica ed estetica nell’opera di Sergej Dovlatov. A questo tipo di analisi davvero complessa mi ha spinto non solo l’interesse puramente letterario per questo autore davvero fenomenale, ma il fatto di esserne stata il traduttore, cioè di aver potuto conoscere le sue opere “dal di dentro”, nella profondità che solo la traduzione costringe a sondare. Su di lui ho scritto un libro quindici anni fa, lasciando in sospeso la parte più difficile, quella più filosofica e ora sto faticando molto per parlare con rigore di temi molto difficili e scottanti, compreso il ruolo di un “classico” in una società, come quella russa, “letteraturocentrica” (nel libro indago, spero in modo interessante, questo strano concetto). Inoltre ho parecchi contratti di traduzione, due per dei grossi capolavori (ma c’è ancora il segreto contrattuale e non posso svelarlo), posso dire che lavoro con immensa soddisfazione per la BUR, l’Universale Rizzoli per cui ho già tradotto vari classici, che hanno avuto parecchie ristampe: L ’idiota e Le notti bianche di Dostoevskij, Terra vergine di Ivan Turgenev, Anna Karenina e La morte di Ivan Il’ič di Lev Tolstoj.

Vorrei farle notare una cosa molto interessante, legata al mio lavoro di teorico: Terra Vergine, Anna Karenina e La morte di Ivan Il’ič sono, in realtà, ri-traduzioni di mie traduzioni precedentemente pubblicate, vendute e piuttosto note. Ma quelle vecchie traduzioni di venti o trent’anni fa, pur essendo fatte al meglio delle mie possibilità, erano comunque frutto del lavoro di chi di teoria non sapeva nulla. Rientravo perfettamente nel “migliore dei casi” in cui si procedeva a caso… Le nuove traduzioni, invece, sono fondate sul mio modello teorico che ho sperimentato per anni, che ho rivisto e perfezionato in molte faticose tappe. Questo modello teorico è una delle cose di cui vado più fiera, soprattutto perché so che può aiutare i nuovi traduttori ad avere molto presto le idee chiare, laddove io ho impiegato decenni per capire… cosa stavo facendo... Purtroppo ci sono ancora tantissimi ostacoli per vincere la diffidenza dei letterati e ottenere l’attenzione dei traduttologi. Non so se nella mia vita vedrò i risultati che speravo, ma - per così dire - ho la coscienza a posto: ho cercato di trasmettere agli allievi tutto quello che ho scoperto e di dar loro una possibilità di diventare più bravi di me (potendo evitare, come ho dovuto fare io, di partire da zero). Ma non mi do per vinta, continuo a lottare con vari articoli in cui argomento e spiego perché solo un modello traduttivo può aiutare chiunque a imparare in cinque anni quello che io ho imparato in trenta. Nel frattempo, io stessa applico le mie scoperte alle mie traduzioni, aggiornando quelle vecchie. E poi cerco di raccontare come procedo: ho pubblicato recentemente un lavoro, ad esempio, in cui descrivo l’approccio alla nuova Anna Karenina uscita per la BUR, cioè cosa è cambiato nel ritradure in base al modello lo stesso capolavoro tolstojano. Un domani, spero, qualcuno esaminerà i due testi e magari potrà meglio di me (che sono troppo coinvolta) valutare le differenze tra la vecchia traduzione “quasi causale” e quella nuova, “accademica”: di sicuro, non solo troverà che in quella nuova non c’è più Laura Salmon, ma c’è solo Lev Tolstoj, ma potrà vedere, nel dettaglio, quante cose sono cambiate rispetto al verbo, non solo nella semantica, ma proprio nel rapporto aspetto-tempo, visto che ora dispongo delle strategie per rendere in italiano l’aspettualità del russo.

Come argomento nel mio libro, le lingue possono sempre dire le stesse cose se devono dirle (lo chiamo il “postulato di Jakobson”): se un russo può dire una cosa con uno strumento, la può dire anche un italiano, ma talvolta con uno strumento diverso: ora lo so e so bene quali strumenti usa l’italiano per fare quello che fa il russo. Ovviamente, poi, nel ri-tradurre trovo anche gli errori veri e propri, i “fischi per fiaschi”. Ma quelli sono meno interessanti. Del resto, paradossalmente, se oggi faccio meno errori, non è perché sono più “esperta” (ovviamente, lo sono), ma perché sono più umile, più puntigliosa e pedante. Infine, oggi c’è internet… non mi piace, ma visto che c’è, la uso, a volte aiuta tanto. Le faccio un esempio.

In Anna Karenina, Anna ripetutamente viene descritta col suo mešok o mešoček, cioè, parrebbe, un “sacchetto” o una “sacchina” ross. È molto importante, visto che la porta sia all’inizio, mentre va a Mosca, sia alla fine, quando muore sotto il treno. Internet mi ha permesso di scoprire, intanto, che Tolstoj usava la parola mešok come calco dal francese sac e poi che Christian Dior ha prodotto un modello di borsa chiamato per l’appunto “Karenina” che è una sorta di “sac voyage”, ma piccolino, cioè è una borsetta da signora, persino rigida, indicata per i viaggi. Ho addirittura trovato in rete delle vecchie fotografie dell’Ottocento che illustravano la tipologia del dorožnyj mešoček, cioè del sac voyage per signora.

M.D.: Questo mi fa ricordare un estratto di Maurice Friedberg, in cui racconta come Goethe avesse scritto al suo traduttore francese del Faust di aver capito meglio se stesso leggendo le sue traduzioni in francese...

[Risate]

L.S.: Un’altra cosa che ho sempre detto ai miei studenti, e che avevo scritto già tanti anni fa, è che per un traduttore è molto importante vedere le cose che si leggono: vedere gli oggetti, le facce, le espressioni. Se vedo un verbo in cui qualcuno è arrabbiato, posso vedere anche la faccia che fa. Internet, almeno con i singoli oggetti, ti permette di vedere le cose materialmente, di avere una conferma di quello che immagini, di quello che avrebbe visto un contemporaneo dell’autore. Basti pensare agli attrezzi per i lavori in campagna: Tolstoj cita un sacco di oggetti e ho potuto correggere tante piccole cose, compresi i nomi degli uccelli... Infatti, trent’anni fa, pur avendo l’enciclopedia degli uccelli, quella dei mammiferi, quella dei serpenti... non sempre potevo essere sicura della corrispondenza. Se ci ripenso, anche per una piccola traduzione, si dovevano avere enciclopedie a non finire e tanti dizionari, così da cercare di capire attraverso la descrizione se la parola di una lingua coincideva con la descrizione dell’altra. Oggi, basta scrivere sul motore di ricerca una parola in russo, guardare la foto e trovare la parola italiana che si associa alla stessa foto (magari in più siti, per maggior sicurezza).

È curioso che i miei studenti sono davvero in difficoltà nel fare queste ricerche. Internet dà le informazioni, ma bisogna saperle trovare. Quando i miei studenti mi dicono “non ho trovato niente su questo autore”, dico: “mi dia venti secondi!”. “Ecco!” e mostro decine di risultati. “Ma come ha fatto? Io non avevo trovato nulla.” A volte neppure capiscono di dover cambiare l’ordine delle parole, di cercare in modo diverso, di usare una diversa traslitterazione... Sono più esperta io, che non ho grande passione per i computer, di loro che sono cresciuti dentro internet...

Importante, facendo una traduzione, è capire per chi si sta lavorando. Se traduco dal russo, non è per chi può leggere il russo. Se uno non è un traduttologo e conosce il russo, non ha bisogno della mia traduzione. La mia traduzione serve a chiunque voglia conoscere testi russi con la garanzia di poter leggere l’autore e non il traduttore. Per esempio, a un filosofo che vuole occuparsi di Dostoevskij o di Tolstoj, e che non sa il russo o a uno studioso di letterature comparate, offro i miei testi tradotti, dando la garanzia che leggeranno Dostoevskij e Tolstoj, e non Laura Salmon. La sola bravura di Laura Salmon è di esserci… senza lasciare tracce. Le mie tracce sono la mancanza di tracce. Che è in fondo il succo di tutte le arti: quando un pianista suona Mozart, deve farti sentire la musica di Mozart, non la propria musica. Linterpretazione del pianista è eccezionale se e solo se c’è il massimo di Mozart nella sua esecuzione di Mozart.

M.D.: The translator’s invisibility...

L.S.: già, quello che Lawrence Venuti ha combattuto è lo scopo della mia ars, cioè di tutte le regole dell’arte traduttiva… Il traduttore di fonde con l’autore. Una mia collega una volta ha detto: “Noi siamo tutti frustrati perché facciamo i critici, gli storici, o i traduttori e vorremmo essere autori, ma non sappiamo scrivere come loro”. Non è proprio vero! A parte il fatto che io scrivo, penso, bene, ma è proprio il contrario. La mia più grande fierezza è aver imparato a tradurre. E non è affatto una cosa “modesta”. O meglio, è modesta nel senso che è disciplinante, ma sei tu a creare la disciplina, a trovare il sistema delle istruzioni che permettono agli italiani di leggere Tolstoj in italiano. Le istruzioni io me le sono dovute cercare completamente da sola: non c’era nulla! “Fai quel che ti pare”, era il messaggio: non si sbagliava mai, visto che non c’erano istruzioni. Il mio grande merito è stato di non accettare di fare il “traduttore a caso”, di voler diventare una professionista, di superare lo stadio del buon dilettantismo.

Recentemente ho pubblicato una recensione, anche un po’ dura, del malloppo dell’epistolario di Dostoevskij in italiano. Pensi che in tutte le lettere le traduttrici hanno scritto “Caro papà!”, così, col punto esclamativo del russo. In italiano, lo sappiamo tutti, si mette la virgola, mentre il punto esclamativo, normale in russo, dà fastidio persino alla vista: è marcatissimo. L’esclamativo non marcato in russo corrisponde alla virgola non marcata in italiano. Del resto, anche i russi calcano: quando oggi una mail in russo con la virgola, la classifico come anglicismo, come interferenza non consapevole. E il nemico del professionista è l’incoscienza.

Eppure, sembra impossibile, ancora vanno a tradurre persino i classici persone che continuano a far finta che la teoria non esista. Questi dilettanti hanno in comune una caratteristica: la presunzione. Costoro presumono di non aver bisogno di riflettere e di studiare. E sono disposti a far ricadere sulla fama della professione e sul destino dei più grandi autori russi la loro superficialità. Questo per me, oggi, ha dell’incredibile.

M.D.: Lei ha scrito nel suo libro Teoria della Traduzione sulla “svolta linguistica” nella traduzione in URSS con nascita della traduzione meccanica in URSS negli anni Trenta, con Trojanskij. Potrebbe parlarne un po’?

L.S.: Il lavoro di Pëtr Trojanskij era legato moltissimo alla politica di inter-culturalizzazione dei popoli dell’Unione Sovietica, politica che era particolarmente cara a Stalin. C’erano ragioni obiettive per pensare a una macchina per tradurre, che avrebbe permesso di risolvere grosse difficoltà, soprattutto di ovviare alla mancanza di bilingui per tutte le migliaia di combinazioni delle lingue dell’URSS. All’epoca c’era molto ottimismo, tutti pensavano che i problemi fossero velocemente superabili. Eppure, fino a 5-10 anni fa, non esisteva alcun sistema di traduzione automatica che non fosse immediatamente riconoscibile come artificiale: vedevi una traduzione e dicevi “l’ha fatta di certo una macchina, non l’ha fatta uno studente!”. Oggi è diverso; la macchina ti dà sempre in uscita un testo piuttosto buono, ma buono non significa professionale. Siamo ancora lontani dalla professionalità. Intanto, hanno costruito questi sistemi senza un modello parametrizzato della traduzione, cioè neanche i programmatori sanno cosa stanno facendo, non hanno un modello di traduzione che garantisca la retroversione affidabile: c’è un po’ di pragmatica, c’è un po’ di semantica... più o meno i conti tornano. Ma noi non vogliamo leggere più o meno Dostoevskij… Il livello della traduzione meccanica di oggi corrisponde al livello di Umberto Eco: dice quasi la stessa cosa. Quindi non è ancora affidabile. Tuttavia, non posso non riconoscere che sia prodigioso, perché le traduzioni artificiali sono già molto migliori di tante traduzioni di umani. Ma per me una traduzione affidabile dice la stessa cosa. Le chiedo, Dottoressa, se adesso dovesse andare da un medico, vorrebbe che traducessero i suoi referti dicendo quasi la stessa cosa? Certo che no. E, allora, perché mai Tolstoj non dovrebbe volere lo stesso coi suoi immortali capolavori? Lei mi dirà, ma la poesia non è traducibile in modo scientifico... Quanti ancora sono convinti che i giochi di parole siano intraducibili, che ci siano cose che… “in italiano non si può dire”. Invece, c’è sempre un modo per dire tutto, il difficile è sapere quale. E torniamo al solito problema: i requisiti. Se uno non sa il russo, la traduzione non viene non perché è impossibile a priori… Le faccio un esempio che uso spesso: la poesia di Anna Achmatova “Ho stretto le mani sotto il velo scuro” è stata tradotta moltissime volte. Si conclude con un verso che ha rivoluzionato la poesia russa, con la frase “ne stoj na vetru” (“non prendere freddo”). Nessuno dei traduttori ha capito quella frase e l’hanno tradotta in modalità a calco, del tutto “artificiale” (“non startene al vento”), dando vita a una grande metafora simbolista: peccato, però, che quel verso di Achmatova decretasse guerra al simbolismo usando proprio una frase banale, quotidiana, terra-terra! Achmatova aveva scelto di rappresentare la delusione di fronte al sentimento dell’amore (lui la lascia, se ne va, poi si gira, le dice di “non prendere freddo”) mediante una de-sacralizzazione dell’illusione, mediante una reductio ad concretum. Nessuno dei traduttori conosceva la lingua nella realtà, nessuno sapeva dire in russo a un bambino “vieni dentro, non prendere freddo”. I miei grandi maestri, salvo rarissime eccezioni, sapevano il russo in modo piuttosto primitivo. A volte hanno scritto cose imbarazzanti dovute alla scarsa consapevolezza del livello del loro russo. Un tempo, si pensava, nessuno troverà gli errori, ma oggi i miei studenti della magistrale sono molto più bilingui di qualsiasi letterato di un tempo.

Del resto, la consapevolezza non è scarsa solo per i dilettanti della traduzione, ma anche per la maggior parte delle case editrici. Per lo più, gli editori fanno rileggere le traduzioni, ma non si preoccupano delle “regole dell’arte”. Ben pochi editor e redattori hanno idea di cosa sia la traduttologia. La BUR della Rizzoli è un’eccezione assoluta: ho a disposizione una squadra di tre-quattro persone di livello sopraffino. Ognuna di loro fa “l’avvocato del diavolo”, cercando ogni possibile inezia nella mia traduzione che possa andare contro le mie stesse regole. Spesso controllano comparando con le traduzioni inglese e francese, per esempio. È un livello così alto solo perché loro sanno davvero comprendere e apprezzare quello che faccio per loro. E questo si riflette anche nella valutazione economica di quello che io consegno. Siamo contenti tutti: finalmente, lascio dietro di me una traduzione di cui sono pienamente soddisfatta e a loro resta una traduzione che, se tutto va bene, dovrebbe durare non cinquant’anni, ma molto, molto di più. Tutti i testi invecchiano, ma non è vero che le traduzioni invecchino “di più” degli altri testi. Invecchiano prima solo le traduzioni dei dilettanti, perché tutte le cose che non vengono fatte a regola d’arte, smettono prima di funzionare.

M.D.: Lei ha scritto che già negli anni Trenta la teoria della traduzione sovietica aveva assunto una posizione interdisciplinare contraria all’ideologia antiscientifica dei pensatori occidentali irrazionalisti, ad esempio Walter Benjamin e Ortega y Gasset. Potrebbe parlarne?

L.S.: Penso che anche nella Russia prerivoluzionaria ci fosse già una propensione normativa, come si vede dalla scuola formalista. Sebbene il primo libro pubblicato col titolo di Teoria della traduzione fosse uscito in URSS in ucraino (l’autore, Oleksandr Finkel’, era un anglista di famiglia ebraica), già prima della Rivoluzione, i letterati erano molto interessati alla lingua e fin dalla fine dell’Ottocento nell’Impero c’erano dei veri e propri filosofi del linguaggio assieme agli eminenti grammatologi. In realtà, l’interesse per la traduzione è coerente alla tradizione filologica slava. La filologia slava, in fondo, è la base epistemologica più solida per un traduttologo. È la tradizione dei filologi di cui dicevamo prima, gente che si occupava, insieme, di lingua e letteratura. Ma il problema della traduzione è diventato concreto proprio in Unione Sovietica, Paese multinazionale con centinaia di lingue, che non poteva trascurare l’importanza della comunicazione tra periferia e centro culturale (Mosca e Pietrogrado/Leningrado). Tant’è vero che Stalin aveva anche scritto dei saggi di linguistica e filologia: si occupava, in particolare, di quello che oggi definiremmo “sociolinguistica”. So bene che in Occidente sarebbe obbligatorio parlare sempre e solo male di Stalin, ma ancora spero che esista margine per qualche libertà almeno in Brasile. Le racconto un aneddoto: un grande critico letterario italiano, noto esperto di Leopardi, Sebastiano Timpanaro, diceva: “Io sulla tomba di Stalin scriverei: ‘qui giace un grande linguista’ e poi, tra parentesi, aggiungerei ‘si è occupato anche di politica’”. Insomma, la famosa questio linguae in URSS era fondamentale per la sopravvivenza di quell’immenso Paese. Recentemente ho letto un saggio davvero interessante di Boris Groys, filosofo tedesco di origine russa che ha lavorato in tante università americane, in Inghilterra e in Germania e ora insegna alla New York University: s’intitola The Communist Postscriptum (l’originale in tedesco è del 2006). Il libro è stato tradotto anche in russo: Groys sostiene che la differenza tra socialismo e capitalismo stia nel fatto che, mentre al centro del capitalismo c’è il denaro e, quindi, le cifre, per il socialismo il ruolo centrale era tributato alla parola, alla lingua: nel libro si spiega bene come tutto, compreso l’esercizio del potere, nella società socialista, avvenisse attraverso la parola: le disposizioni, le sentenze, la propaganda, la contestazione e la dissidenza (per quanto potesse essere ostacolata), tutto nasceva dalla centralità della parola. Secondo Groys, il mondo capitalistico è “muto” e assordato dai numeri, dalle cifre e dal denaro; in questo mondo la parola non conta nulla: il denaro è lo strumento opposto alla parola. Questo spiega il ruolo sacrale che la letteratura ha da sempre avuto nelle culture del socialismo reale. Pensi alla socialdemocrazia d’inizio Novecento, quella da cui sono scaturiti i più attivi rivoluzionari: si facevano scuole domenicali per studiare, ma soprattutto per imparare a gestire la parola, a discutere, a scrivere, a parlare, a tradurre... Tutto passava da una persona all’altra e da una generazione all’altra attraverso la parola. Nel nostro mondo di oggi parlare non serve affatto: non ha potere chi argomenta bene, chi sa usare le parole, ma chi ha i soldi, con cui azzittisce chi vorrebbe parlare. È una teoria anche estrema, certo, ma c’è qualcosa di profondamente convincente sotto-sotto. Credo che l’ossessione russa per qualsiasi forma di letteratura, compresa, a pari merito, la traduzione, sia storicamente collegata alla natura multiculturale e logocentrica dell’Unione Sovietica prima e della Russia oggi. In Russia la parola sta tornando a dominare sulla forza esogena del denaro: e se la parola ha potere, ha potere la traduzione. Noti bene che in Russia nessuno ha mai fatto differenza tra autore e traduttore: il prestigio sociale ed etico è sempre stato immenso per entrambi. Viceversa, il ruolo della letteratura, della parola e della traduzione nei Paesi occidentali è sempre stato quasi irrilevante, a meno che uno scrittore non diventi ricco, quindi potente, ma in realtà nessuno scrittore ha mai in Occidente il ruolo propriamente politico che hanno letterati e scrittori in Russia. Gli zar mandavano sempre tutti i grandi scrittori al confino o in galera, vietavano perennemente la pubblicazione delle loro opere (la censura sovietica proseguiva solo la tradizione storica del Paese). La grande differenza tra il cosiddetto “russkij mir” rispetto al capitalismo occidentale di marca anglosassone è il logos, la parola, la letteratura. Qualsiasi logica della produttività può ancora essere messa a tacere dalle argomentazioni. Ovviamente il libretto di Groys piace poco agli occidentali, ma forse potrebbe interessare ai brasiliani…

M.D.: Quindi come spiegare l’importanza della psicolinguistica e della neurolinguistica sulle teorie della traduzione sovietiche?

L.S.: È una domanda apparentemente semplice; forse, la risposta migliore la trova nel mio saggio Translation Theory in Soviet Union (2015). Non è affatto casuale: tutto era collegato in Unione Sovietica: il filone della psicolinguistica, con il grande Lev Vygotskij, quello della neurolinguistica, con il grande Aleksandr Lurija (per citare autori tradotti in tutte le lingue). Ma c’è anche una ragione politica: in una società dove era rischioso occuparsi di tematiche ideologiche, come la storia o la sociologia (ma si pensi anche alla lotta contro la genetica), la linguistica era uno dei campi meno rischiosi, che poteva presentarsi come perfettamente formale e formalizzabile. Vygotskij e Lurija hanno sviluppato le loro ricerche per conto proprio, ma lavorando sulla parola e sull’idea che esista una relazione tra pensiero, parola e memoria. Non a caso il testo principale di Vygotskij era Mysl’ i reč’, cioè Pensiero e linguaggio, mentre Lurija ha fondato, lavorando coi suoi pazienti, che avevano perso la parola o la memoria, una “scienza romantica”, costruita sul recupero della parola. In URSS, poi, vigeva ancora una grande ammirazione per gli studi enciclopedici: in epoca sovietica non esisteva l’idea del “piccolo orticello” dove una studi una sola cosa piccola-piccola e non s’interessa a nient’altro. In Occidente, accade l’estremo opposto anche a livello accademico: solo le super-specializzazioni vengono considerate scientifiche e chi si oppone sono i cultori di un’interdisciplinarità basata su una falsa libertà: chiunque può dire quello che gli pare su qualunque cosa anche se non ne sa un bel niente. Sono i due estremi di una società priva di dialogo. Il diktat, per così dire è duplice: o parli di qualcosa di cui sei il massimo specialista e dialoghi solo con gli specialisti come te, o scrivi quel che ti pare senza mai argomentare nulla. Dimenticavo, c’è una terza categoria di studiosi in Occidente, quella a cui apparteneva Umberto Eco: i divulgatori. Eco era un filosofo e non sapeva nulla di linguistica e traduzione, ma poteva scriverne un libro, orecchiando qualcosina che prendeva da altri. Il principio, ancora una volta, era il successo economico: con Il nome della rosa era diventato famoso e ricchissimo, quindi il suo parere era sentito in ogni campo e partecipava a convegni su ogni argomento dello scibile umano. Viviamo in una cultura in cui non conta più la forza della parola, ma la fama, il cosiddetto “quotation index”, quanto sei “gettonato”, citato e, quindi, fai “tendenza”. Anche in Russia stava diventando così, per trent’anni, dopo il crollo dell’URSS, c’è stato il trionfo del successo personale. Adesso, chiaramente, le cose stanno cambiando e cambieranno sempre di più. La Russia oggi ricorda un marito che sia scappato con una donna giovane e brillante e che, abbandonato, torni a casa dalla moglie. Ma la cosa interessante è che rivaluti davvero la moglie abbandonata e scopra che certi valori, come la letteratura, danno gioia e prosperità a un popolo che da secoli ama i libri, le lingue, le culture (non solo la propria, tra l’altro). Nel progetto sovietico sulla traduzione per tutti, emergeva la centralità sociale del ruolo delle lingue, della comunicazione interlinguistica e la difesa delle culture di tutti i popoli attraverso la traduzione e la diffusione delle opere letterarie. Questo era stato il progetto di Maksim Gor’kij negli anni Venti. Una cosa resta fondamentale secondo me: se vuoi accogliere l’altro, se vuoi almeno combattere la naturale (e triste) diffidenza umana per la diversità, puoi solo cercare di conoscere le tradizioni altrui, di coltivare le lingue e le opere degli altri popoli: è l’unico modo per non cedere alla tentazione di ritenersi la razza migliore o la cultura superiore per il solo fatto che cancelli gli altri dal tuo orizzonte di conoscenza.

Per combattere il “pensiero unico”, dobbiamo usare le lingue e le parole di ogni popolo e portarle a chi difende con grande energia il proprio supposto diritto di non conoscere null’altro che se stesso.

  • DICHIARAZIONE DI DISPONIBILITÀ DEI DATI DELLA RICERCA

    I dati pubblici utilizzati nella ricerca sono disponibili agli indirizzi web citati, consentendo così un accesso ampio e illimitato.
  • 1
    Con la Rivoluzione d’Ottobre e fino agli anni Ottanta, sulle teorie della traduzione sono state scritte in diverse lingue slave opere fondamentali (il primo libro dal titolo Teoria della traduzione di O.M. Finkel’ era uscito nel 1929 a Char’kiv).
  • 2
    Cfr. anche Salmon, Laura, Su macro- e microtipologie testuali: epistemologia, funzionalità e didattica della traduzione, in Patrizia Mazzotta, Laura Salmon (a cura di), Tradurre le microlingue scientifico-professionali, Torino, UTET, pp. 29-48; Id., Teoria della traduzione (2017), cit., p. 50-57.
  • 3
    Ad esempio, l’idea fondamentale di “radice” o “radicale”, che ha impiegato così tanto tempo ad emergere nel mondo occidentale, esisteva già da tempo nel mondo mediorientale (ed è solo uno degli innumerevoli esempi di ritardi nella storia dello sviluppo della linguistica in Europa).
  • 4
    “Questa frase, apparentemente semplice, può essere usata come ‘micro-manuale’ di traduttologia. [...]. L’unico modo per rifare la ‘stessa cosa’ era selezionare un traducente con la stessa f-marcatezza, scegliendo di tradurre:
    - con un’esplicitazione l’acronimo “OVIR” (che sta per “Sezione visti e registrazioni”, ma indicava in epoca sovietica il luogo dove si chiedeva il passaporto, si registravano gli stranieri e si otteneva il ‘visto per l’espa- trio’); la scelta che quell’esplicitazione fosse ‘Ufficio per l’espatrio’ e non ‘Ufficio passaporti’;
    - ‘suka’ con ‘stronza’ e non ‘cagna’ (come suggeriscono i dizionari); la scelta di tradurre con il presente il russo ‘govorit’ (cosa non scontata, perché in russo non esiste coerenza temporale nelle narrazioni e spesso il presente si alterna al passato nello stesso paragrafo, quindi spesso si rende con il passato remoto);
    - la ‘i’ polisemica del TP (‘i govorit’) – che potrebbe significare, in generale, ‘anche’ oppure ‘e’ – con ‘viene a dirmi’ (perché qui ha valore fraseologico);
    - l’aggettivo dimostrativo ‘èta’ non con ‘questa’, ma con ‘quella’ (evitando un calco che i traduttori italiani spesso assecondano a dispetto dell’orecchio interno alla nostra lingua) eccetera.” (2017, p. 195).

REFERÊNCIAS

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  • JAMES BAER, Brian; Natalia Olshanskaya (org). Russian writers on translation: an anthology Londra e New York: Routledge, 2014.
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Data availability

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Publication Dates

  • Publication in this collection
    02 Feb 2024
  • Date of issue
    Sep-Dec 2023

History

  • Received
    03 Oct 2023
  • Accepted
    12 Oct 2023
  • Published
    15 Dec 2023
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