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Hupokeimenê Phusis nel libro I della Fisica di Aristotele: sulla natura del sostrato

ARTIGOS

Professoresa di Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Catania, Itália. giardig@unict.it

RIASSUNTO

In Phys. I 1 Aristotele si sforza di far comprendere in che cosa il suo sostrato differisca dal sostrato dei Presocratici e di Platone. I risultati di questo sforzo teoretico rendono chiara la tanto discussa espressione di I 7, 191a7 ss.: la natura soggiacente conoscibile per analogia è il sostrato aristotelico che, lungi dall'essere materia prima, è duplicemente determinato (dalla sua forma e da una privazione); vale, da un lato, per tutti i tipi di generazione (sia assoluta, sia relativa) e, dall'altro lato, sia per le sostanze naturali che per quelle degli artefatti; in quanto soggetto di una determinazione privativa è conoscibile in virtù di un rapporto con la sostanza, ovverosia con l'ente determinato, ed è differente dal sostrato di quest'ultimo, in quanto questo secondo è soggetto di una determinazione compiutamente acquisita.

Parole chiave: Sostrato, natura, generazione, Fisica, Aristotele.

RESUMO

Em Phys. I 1, Aristóteles se esforça para compreender em quê o seu substrato difere do substrato dos Pré-socráticos e de Platão. Os resultados deste esforço teorético esclarecem a tão discutida expressão de I 7, 191 a7ss.: a natureza subjacente cognoscível por analogia é o substrato aristotélico que, longe de ser matéria prima, é duplamente determinado (pela sua forma e por uma privação); vale, de um lado, para todos os tipos de geração (seja absoluta seja relativa) e, de outro, tanto para as substâncias naturais quanto para aquelas dos artefatos; enquanto sujeito de uma determinação privativa é cognoscível em virtude de uma relação com a substância, ou seja, com o ente determinado, e é diferente do substrato deste último na medida em que este segundo é sujeito de uma determinação completamente adquirida.

Palavras-chave: Substrato, natureza, geração, Física, Aristóteles.

1. Premessa

La Fisica di Aristotele, come indica il suo titolo originale, phusikê akroasis, dove il sostantivo fa riferimento all'ascolto e quindi alla dimensione orale dell'insegnamento aristotelico, è il trattato che si occupa della natura, phusis, e degli enti naturali, ta phusika, e quindi di tutte quelle nozioni che sono a questi attinenti. Ma se il lettore pensa che aprendo il libro della Fisica scoprirà subito che cosa sia precisamente per Aristotele la natura, rimarrà deluso, perché per tutto il libro I lo Stagirita, come è noto, si sofferma a trattare la questione relativa ai principi del divenire e occorrerà giungere ai primi due capitoli del libro II per trovare la trattazione esplicita e dettagliata della nozione di phusis. Questo accade, come ci informa lo stesso Aristotele nelle prime linee di Phys. I 1, perché il sapere scientifico coincide in ciascun ambito di ricerca con la conoscenza delle cause prime, dei principi primi e degli elementi. Secondo questa indicazione, quindi, il problema dei principi del divenire ha priorità rispetto sia alla questione riguardante la phusis sia al problema delle cause, di cui Aristotele si occupa nel libro II, perché, come ci si accorge dopo aver letto almeno i primi due libri del trattato, il problema dei principi è intimamente legato sia a quello della phusis che a quello delle cause.1 1 Delle ragioni per cui Aristotele può affrontare adeguatamente la spiegazione della nozione di phusis e la questione della causalità solo dopo avere impostato la sua teoria sui principi del divenire naturale, ho discusso più approfonditamente di quanto non possa fare in questa sede nel mio libro I fondamenti della causalità naturale. Analisi critica di Aristotele, Phys. II, Catania 2006, pp. 57 ss. Si vd. anche D. Bostock, Aristotle on the Principles of Change in Physics I, in M. Schofield & M.C. Nussbaum, Language and Logos: Studies in Ancient Greek Philosophy, Cambridge 1982, pp. 179-196.

In questo studio intendo mostrare come un certo discorso sulla phusis sia in realtà presente già nel libro I della Fisica e cioè prima ancora di divenire oggetto di indagine specifica del libro II. In Phys. I, infatti, Aristotele fornisce sulla phusis delle indicazioni preziose e senza le quali si rischia di non comprendere appieno la trattazione esplicita che egli fa di questa nozione nel libro II. In particolare, nel libro I Aristotele propone una nozione di hupokeimenê phusis, cioè di natura quale sostrato, hupokeimenon, che non solo ha rapporto con la nozione di ousia (per il fatto che quello di sostrato è uno dei significati che viene attribuito alla sostanza),2 2 Come Aristotele spiega diffusamente in Meta. VII 3, su cui si vd. il commento di M. Frede e G. Patzig, Aristoteles «Methaphysik Z», München 1988 (trad. it. di N. Scotti Muth, Milano 2001). ma che soprattutto si confronta direttamente con il concetto di materia, hulê, già noto ai predecessori di Aristotele. Il mio compito sarà, allora, quello di illustrare i seguenti nodi teorici: a) che il sostrato, to hupokeimenon, è phusis o che, almeno, uno dei modi in cui si deve intendere la phusis è quello di sostrato: questa identificazione percorre gran parte del libro I, per il fatto che Aristotele vi discute le teorie dei fisiologi che lo hanno preceduto e che hanno identificato il principio materiale della realtà con il sostrato o natura delle sostanze naturali. Anche per Aristotele, però, entrambe queste nozioni, quelle cioè di sostrato e di natura, sembrano assimilarsi fra loro per il fatto che entrambe hanno a che fare con il concetto di hulê, ma un confronto fra il libro I della Fisica e il capitolo II,1, in cui Aristotele si preoccupa di spiegare la nozione di phusis, renderà chiaro che tale identificazione va assunta con delle puntualizzazioni che riguardano il carattere del sostrato, che da un lato è sostrato del divenire e dall'altro lato è sostrato della sostanza naturale; b) che il sostrato è in un certo qual modo sostanza, ousia, e che tale determinazione appartiene soltanto al sostrato e non anche agli altri due principi del divenire, cioè la forma (eidos) e la privazione (sterêsis), per il fatto che forma e privazione sono principi fra loro contrari e i contrari non possono essere sostanza di nessuno degli enti (outhenos gar horômen tôn ontôn ousian tanantia - I 6, 189a29), perché, al contrario, occorre che ci sia un sostrato, in cui le proprietà contrarie possano sostituirsi l'una all'altra; c) che tale identificazione fra sostrato e sostanza deve essere assunta anch'essa con delle precisazioni, perché da un lato essa è possibile nella misura in cui il sostrato è materia, ma dall'altro lato, quando la materia assume la funzione di sostrato quale principio del divenire, più che un'assimilazione fra il sostrato e la sostanza si costruisce una relazione, quella cioè di cui parla Aristotele quando dice che la natura soggiacente, cioè il sostrato, può essere conosciuta solo per analogia (hê de hupokeimenê phusis epistêtê kat'analogian - I 7, 191a7-8).3 3 Di questa analogia si è occupata K.C. Cook, The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter: Aristotle's Analogy in Physics I 7, «Apeiron», 22 (1989), pp. 105-119, la cui tesi, che, come si dedurrà da questo studio, io non condivido, è che con l'espressione hupokeimenê phusis Aristotele intende indicare il sostrato quale causa materiale che persiste nei mutamenti delle sole sostanze naturali. La natura soggiacente ha infatti con la sostanza lo stesso rapporto che la materia fisica ha con la sostanza fisica intesa, quest'ultima, come unione di materia e forma. Il sostrato, così come è assunto da Aristotele quale principio del divenire, deve essere inteso, infatti, nel senso preciso della sua funzione, per cui non risulta assimilabile, sempre secondo Aristotele, alla semplice nozione di materia, in quanto rappresenta una nozione del tutto nuova rispetto alle teorie fisiche dei predecessori, Platone compreso. Di questa hupokeimenê phusis quale hupokeimenon e insieme ousia, con le precisazioni a cui ho accennato, occorre tenere conto, come dicevo, per comprendere correttamente la nozione di phusis del libro II della Fisica. A questo scopo, in queste pagine ripercorrerò criticamente quanto Aristotele insegna nel libro I della Fisica, cercando di illustrare brevemente il discorso che fa Aristotele e soffermandomi più diffusamente su alcuni passaggi che, a mio modo di vedere, chiariscono i termini della questione oggetto della presente analisi, per confrontare infine i risultati così raggiunti con alcuni aspetti di quanto Aristotele dice esplicitamente sulla phusis nel libro II.

2. Assimilazione delle nozioni di phusis, hupokeimenon e ousia: discussione critica delle teorie dei Presocrati e di Platone intorno al principio materiale della realtà

In Phys. I 1, dopo avere affermato che la conoscenza scientifica di ogni cosa si ha quando di tale cosa si conoscono i principi, le cause e gli elementi, Aristotele indica il percorso metodologico che deve seguire chiunque si accinga a fare scienza della natura: si tratta di partire dall'osservazione degli enti considerati nella loro globalità, ovvero nella indistinta e confusa mescolanza dei loro costituenti - che rappresenta la fase in cui l'ente è più noto per noi -, per giungere a conoscere appunto le cause e i principi di tali enti, fase contraddistinta dal fatto che l'ente diviene in tal modo più noto per natura.4 4 Su questa indicazione di metodo, che si legge anche in Meta. VII 3, 1029b3-5, cf. R. Bolton, Aristotle's Method in Natural Science: Physics I, in L. Judson (ed. by), Aristotle's Physics: a Collection of Essays, Oxford 1991, pp. 1-29. Questa indicazione metodologica, che prescrive di procedere dal particolare all'universale e perciò in senso inverso rispetto a quello che si percorre nel caso del procedimento deduttivo, è estremamente interessante se si pensa che lo stesso Aristotele è il filosofo che ha indicato nel metodo apodittico o dimostrativo il metodo stesso della scienza.5 5 Su queste questioni cf. M. Mignucci, La teoria aristotelica della scienza, Firenze 1965; M. Zanatta, Lineamenti della teoria aristotelica della scienza, in AA.VV., La ricerca filosofica, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo, a cura di L. Russo, Palermo 1996, pp. 315-334; Id., Metodo e statuto epistemologico della fisica di Aristotele, in ENÔSIS KAI PHILIA, Unione e amicizia, Omaggio a F. Romano, a cura di M. Barbanti, G.R. Giardina e P. Manganaro, Catania 2002, pp. 163-188. In effetti, nei trattati di scienza naturale - e quindi, come primo fra tutti, nella Fisica - il sillogismo scientifico, quello cioè strettamente apodittico, assume un ruolo molto poco rilevante rispetto a quanto ci si attenderebbe sulla base dell'importanza attribuitagli da Aristotele nell'Organon, e questo non deve sorprendere, perché Aristotele chiarisce che il metodo apodittico, che è perfettamente adeguato alle scienze matematiche,6 6 Vd. J. Corcoran, A Mathematical Model of Aristotle's Syllogistic, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 55 (1973), pp. 191-219. è altresì adeguato nel caso di quelle scienze che, come egli dice, non hanno nulla a che fare con la materia. Epperò, nel caso delle scienze naturali, lo scienziato ha sempre a che fare con forme immanenti alla materia7 7 In Phys. II 2, ad esempio, Aristotele mostra la differenza che intercorre fra l'oggetto di studio del matematico e quello del fisico: il matematico si occupa legittimamente di forme che sono nella materia ma che costituiscono il suo oggetto di studio quali forme separate, mentre il fisico deve occuparsi delle forme sempre insieme con la materia di cui sono forme e deve costantemente tenere presente entrambi gli aspetti, quello materiale e quello formale, degli enti naturali di cui si occupa; vd. G.R. Giardina, I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 93-133; cf. anche D.K.W. Modrak, Aristotle on the Difference between Mathematics and Physics and First Philosophy in Nature, «Apeiron», 22/4 (1989), pp. 121-139. ed inoltre non dispone di un insieme di nozioni universali da inquadrare in un sistema rigorosamente deduttivo e dimostrativo, ma al contrario deve trovare, mediante la concreta ricerca sul campo e partendo dai dati contingenti dell'esperienza, i principi delle singole scienze naturali. L'obiettivo della ricerca sulla natura è infatti duplice: si tratta da un lato di costruire un discorso definitorio dell'oggetto su cui verte la ricerca e, dall'altro lato, di scoprire le cause degli enti oggetto di indagine. Questi due obiettivi sono fra loro complementari, in quanto il discorso definitorio è quello che dice l'essenza di un oggetto e quindi ne individua la causa formale, mentre le cause dell'oggetto attengono sempre alla generazione e all'essenza dell'oggetto definito. Aristotele sa bene, quindi, che sono diversi il metodo della dimostrazione, che parte dagli universali per dimostrare deduttivamente una verità scientifica relativa ai particolari, e il metodo della scoperta e dell'apprendimento, proprio delle scienze naturali, che al contrario parte dall'osservazione della realtà e degli enti particolari per ricavarne una verità scientifica.

Dopo avere indicato il percorso metodologico che deve seguire chiunque si accinga a fare ricerca nel campo della natura e dopo avere precisato, quindi, che occorre in prima istanza conoscere i principi, Aristotele, in Phys. I 2, imposta la sua propria ricerca sui principi del divenire fissando uno schema nel quale inserisce tutte le teorie che storicamente lo hanno preceduto sullo stesso problema dei principi. Egli stabilisce, nella fattispecie, che i principi sono o uno o molti e che, nel caso in cui il principio sia uno, esso sarà in movimento, come hanno pensato i filosofi ionici, oppure immobile, come hanno ritenuto Parmenide e Melisso, mentre nel caso in cui i principi siano molti, questi potranno essere o di numero infinito, come hanno ritenuto gli Atomisti e Anassagora, oppure di numero determinato, come ad esempio ha pensato Empedocle. Questo schema è tale che, qualora si dimostri errata una data posizione teorica, immediatamente la ricerca potrà assumere la posizione contraria. Così, a proposito dell'opinione secondo cui il principio è uno, Aristotele si limita a confutare, in Phys. I 2-3, la posizione teorica degli Eleati, Parmenide e Melisso, dal momento che, una volta che si sia compreso che il principio non può essere uno, non rimane che ammettere l'ipotesi della molteplicità dei principi. Gli Eleati, affermando che il principio di tutte le cose è l'essere che è uno e immobile, hanno commesso, secondo Aristotele, un duplice errore, perché l'ipotesi eleatica dell'unicità e immobilità del principio reca come sua naturale conseguenza sia il fatto che tale principio viene meno alla sua stessa funzione di principio - perché, se c'è un principio, occorre che ci sia anche ciò di cui il principio è principio, e perciò occorre che l'essere sia almeno duplice -, sia il fatto che tutta la realtà naturale non può essere considerata se non immobile, mentre «noi dobbiamo partire dalla premessa di fatto - avverte Aristotele alle li. 185a12-14 - che gli enti naturali, o tutti o <almeno> alcuni, sono mossi: e ciò è chiaro per induzione (hêmin d'hupokeisthô ta phusei ê enia kinoumena einai. dêlon d'ek tês epagôgês)».

Il metodo della scoperta e dell'apprendimento proprio della scienza della natura, così come è impostato da Aristotele, si avvale, come dicevo, dell'osservazione empirica e, a partire da questa, ricava le nozioni scientifiche universali induttivamente, ovverosia a posteriori. In tale contesto di discorso l'induzione non è infatti un procedimento dimostrativo, né tanto meno deduttivo,8 8 Faccio questa precisazione perché in APr. II 23, come è noto, Aristotele mostra che l'induzione si può ricondurre a una forma di deduzione o dimostrazione mostrando che, quando è perfetta e completa, cioè quando siano stati vagliati tutti i membri della classe in esame, l'induzione può essere espressa in forma sillogistica. Sull'induzione come necessario metodo conoscitivo dei principi primi si vd. APo. II 19, 100b3-4; cf. M. Mignucci, La teoria aristotelica della scienza cit.; D.W. Hamlyn, Aristotelian Epagoge, «Phronesis», 21 (1976), pp. 167-184 (trad. it. in G. Cambiano & L. Repici curr., Aristotele e la conoscenza, Milano 1993, pp. 263-285); T. Engberg-Pedersen, More on Aristotelian Epagoge, «Phronesis», 24 (1979), pp. 301-319; K.K. Chakrabarti, Definition and induction. A historical and comparative study, Hawai 1995, cap. 5. ma piuttosto quel procedimento astrattivo mediante il quale il nostro intelletto diviene consapevole, riflettendo sulla realtà sensibile, della distinzione fra un concetto universale e i soggetti particolari a cui esso si riferisce. Tale distinzione permette, quindi, di individuare un logos universale che funge da principio autonomo di conoscenza. In altri termini, l'induzione come tale non è, come appare nel passo testé citato della Fisica, un procedimento atto a dimostrare che gli enti naturali sono in movimento, ma piuttosto quel procedimento che parte dal puro dato empirico e grazie a questo, attraverso un apprendimento ripetuto di singoli casi, giunge alla conclusione che tutti gli enti naturali in quanto tali sono in movimento: il metodo induttivo a cui Aristotele si riferisce in questa pagina della Fisica ha una enorme rilevanza filosofico-scientifica, perché il dato di fatto che gli enti naturali sono in movimento, ricavato empiricamente e induttivamente, diviene punto di partenza per la fondazione di una nuova vera scienza della natura che si prefigge il compito di superare la difficoltà posta dagli Eleati, i quali avevano ridotto tutta la realtà esistente non solo all'unicità, ma anche all'immobilismo.

Ora, fin qui Aristotele ha formulato delle considerazioni di ordine preliminare che hanno toccato solo in generale il problema della natura, phusis, e degli enti naturali, ta phusika, perché ha impostato il discorso sui principi del divenire precisamente come un discorso preliminare a quello sulla natura e certamente fondativo della scienza della natura. È tuttavia più avanti, in seno alla discussione stessa delle teorie dei suoi predecessori sui principi, che Aristotele intreccia un filo sottile che, se diviene manifesto, mostra il rapporto che intercorre fra phusis, hupokeimenon e ousia.

All'inizio di Phys. I 4, Aristotele afferma che i filosofi naturalisti, i cosiddetti phusiologoi, si sono espressi in due modi differenti. Il primo gruppo di tali filosofi è costituito da coloro che rendendo unico il corpo soggiacente (hoi men gar hen poiêsantes to; [on] 9 9 o[n, che si legge in Filop. In Phys. 90,13 e 15, è espunto da Ross (mi riferisco al volume Aristotle's Physics. A Revised Text with Introduction and Commentary, Oxford 1936). sôma to hupokeimenon - 187a12-13) pensano che la molteplicità nasca da questo unico principio per densità e radità, concetti fra loro contrari e che costituiscono, in termini generali, la contrarietà di eccesso e difetto. All'interno di questo primo gruppo Aristotele colloca, oltre ai fisiologi monisti, anche Platone, operando tuttavia una distinzione fra gli uni e l'altro in virtù della sua propria teoria dei principi - che egli esporrà più avanti in Phys. I 6-7 -, secondo la quale, come è noto, i principi del divenire sono tre e sono precisamente due principi contrari fra loro, la forma (eidos) e la sua privazione (sterêsis), e il sostrato (to hupokeimenon). Sulla base di questa triplicità di principi, infatti, Aristotele distingue Platone, che ha posto come principi contrari il Grande e il Piccolo, i quali sono però a ben riguardare entrambi materia (e quindi, in realtà, costituiscono un principio materiale unitario),10 10 Così Aristotele precisa in Phys. I 9, 192a13-14. e come principio unitario la forma (tauta poiei hulên to de hen to eidos - 187a18), dai fisiologi monisti, che hanno posto come principio unitario, cioè come sostrato, la materia, e come principi contrari invece le differenze e le forme (hoi de to hen to hupokeimenon hulên, ta d'enantia diaphoras kai eidê - 187a18-20). Il secondo gruppo di filosofi è costituito da coloro che sostengono che le contrarietà vengono fuori per separazione dall'uno dentro cui si trovano, e fra costoro occorre annoverare Anassimandro e coloro che affermano che gli enti sono uno e molti, cioè Empedocle e Anassagora, i quali hanno sostenuto entrambi che le cose vengono fuori per separazione dalla mescolanza, ma si sono distinti fra loro per il fatto che Empedocle pensa che tale separazione dei molti dall'uno avvenga periodicamente, mentre Anassagora ritiene che sia avvenuta una sola volta. L'attenzione di Aristotele si fissa a questo punto su Anassagora, ed è appunto dalla confutazione della teoria di quest'ultimo che egli ricaverà la falsità della posizione teorica secondo la quale i principi sono molti e di numero infinito. Ma l'aspetto dell'analisi aristotelica che qui ci interessa maggiormente consiste nel fatto che Aristotele sta analizzando le teorie dei suoi predecessori con lo scopo preciso di individuare e al contempo differenziare da esse la sua propria teoria di uno dei tre principi del divenire, e precisamente del sostrato, to hupokeimenon, per indicare il quale più avanti utilizzerà anche l'espressione "natura soggiacente", hupokeimenê phusis. Già a proposito dei filosofi del primo gruppo, infatti, egli è interessato al fatto che essi hanno individuato come principio unico il corpo soggiacente, to sôma to hupokeimenon, e se da un lato ha subito colto l'occasione di distinguere Platone, che ha posto - erroneamente secondo Aristotele - come principio unitario la forma, dai fisiologi monisti, che invece hanno posto come principio unitario la materia, alla quale hanno attribuito la funzione di sostrato, dall'altro lato ha potuto assimilare Platone ai fisiologi monisti per il fatto che il Grande e il Piccolo solo apparentemente sono due principi, perché al contrario costituiscono un unico principio, cioè la materia, per cui di fatto Platone, così come i fisiologi monisti, pone la materia quale corpo soggiacente, ovvero come hupokeimenon. Infatti, quando dice che i fisiologi monisti hanno posto come principio unitario, e cioè come sostrato, la materia, Aristotele vede chiaramente che tali filosofi hanno identificato il sostrato, to hupokeimenon, che è uno dei principi che egli stesso assume, con la materia, mentre, come vedremo, il sostrato per Aristotele non è tout court la materia, bensì la materia dotata di un preciso valore funzionale. In altri termini, come si comprenderà meglio più avanti, non è del tutto scorretto - pensa Aristotele - affermare che la materia abbia funzione di sostrato, così come hanno fatto i Presocratici, e tuttavia quella di materia non è una nozione sufficiente a spiegare il sostrato di un singolo processo di divenire, perché il sostrato nell'ambito del divenire è sì materia, ma con una precisa funzione onto-epistemologica. Non sorprende, quindi, che di qui in avanti la discussione sulla infinità dei principi, che Aristotele conduce soprattutto attraverso l'analisi della teoria di Anassagora, si intrecci con quella relativa alla natura del sostrato come principio del divenire.

A partire dalla li. 187a26, Aristotele dice che Anassagora ha concepito i principi come illimitati (apeira), perché ha assunto come vera l'opinione dei naturalisti, secondo la quale nulla si genera dal non essere e in conseguenza della quale essi affermavano che tutte le cose erano insieme. Partendo dal fatto che i contrari si generano l'uno dall'altro, Anassagora traeva la conclusione che essi prima di generarsi esistevano già insieme (eti d'ek tou gignesthai ex allêlôn tanantia. enupêrchen ara - 187a31-32): evidentemente Aristotele attribuisce ad Anassagora la concezione secondo cui la mescolanza originaria è già molteplicità materiale; in conseguenza di ciò egli presenta la teoria anassagorea delle omeomerie come una teoria secondo cui ciascun principio contiene tutte le determinazioni materiali, per cui risulta possibile ad Aristotele affermare che, secondo questa posizione teorica, ogni cosa necessariamente nasce da cose che <già> esistono e sono immanenti (ex ontôn men kai enuparchontôn gignesthai - 187a36-37). Egli spiega, dunque, la teoria di Anassagora delle infinite omeomerie dicendo che «ciò che ciascuna cosa contiene in maggior misura, questo sembra essere la natura della cosa (hotou de pleiston hekaston echei, touto dokein einai tên phusin tou pragmatos - 187b6-7)». In questo passaggio Aristotele sta utilizzando il termine natura, phusis, per indicare il componente materiale che più di tutti è presente nel corpo omeomere, la prevalenza cioè di un elemento materiale nella molteplicità degli elementi materiali. In ogni caso, però, in questa fase lo Stagirita sta comunque criticando sia la dottrina dei fisiologi monisti, secondo cui le cose nascono dall'uno, cioè dal principio materiale originario, sia la dottrina dei filosofi che all'origine pongono sia l'uno che i molti, che cioè pongono tutti i componenti materiali compresenti e immanenti nell'unità del tutto originario. Ora, se da un lato è vero che Aristotele sta analizzando le teorie dei suoi predecessori per indagare sul numero dei principi, dall'altro lato è innegabile il fatto che, al contempo, avendo ben presente la sua propria teoria dei principi del divenire, lo Stagirita sta considerando i principi materiali dei Presocratici - e non importa se uno solo o più di uno - come se fossero il sostrato, to hupokeimenon. In questo quadro è integrato anche Platone, il quale, se è presentato come l'unico filosofo che ha posto come principi apparentemente duali i contrari in qualità di materia e come principio unitario la forma, proponendo perciò un modello triadico dei principi del divenire (così come triadico è quello aristotelico), che è completamente rovesciato rispetto a quello che proporrà Aristotele, d'altra parte non fa altro che assumere la materia indeterminata come principio sostratico, alla stessa stregua dei monisti.

Dopo aver confutato sia la teoria dell'unicità del principio, tramite la confutazione della filosofia degli Eleati, sia la teoria della molteplicità infinita dei principi, sostanzialmente tramite la confutazione della teoria di Anassagora, non resta ad Aristotele che discutere la teoria della molteplicità finita dei principi, che è la sua propria posizione teorica. Preliminarmente, però, lo Stagirita si pone come obiettivo necessario quello di determinare quanti siano i principi del divenire. Aristotele affronta questo problema segnatamente in Phys. I 5, in cui anzitutto, partendo sempre dalle dottrine dei predecessori, comincia a esaminare la teoria secondo cui principi sarebbero i contrari.11 11 Sul valore veritativo del consensus omnium in Aristotele si vd. W. Wieland, La fisica di Aristotele, Bologna 1993, pp. 126-132 (trad. it. di Die aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Göttingen 1970). Sono i contrari primari che, secondo Aristotele, soddisfano le caratteristiche di principi, perché in quanto primari non derivano da nient'altro e in quanto contrari non derivano l'uno dall'altro (188a28-30).12 12 In linea con questa impostazione metodologica, in GC II 2 Aristotele ricerca i contrari primari sulla base dei quali si può spiegare la generazione reciproca degli elementi. Ogni ente naturale, dunque, nasce e perisce a partire da contrari o da intermedi fra i contrari:13 13 Un colore, ad esempio, può derivare dai colori contrari primari, cioè dal bianco o dal nero, ma anche da colori intermedi fra questi. Non può invece derivare da una cosa del tutto diversa, perché nessuna cosa diviene da qualunque cosa a caso, ma il divenire avviene sempre fra contrari o intermedi ( Phys. I 5, 188a30 ss.). «sicché - conclude Aristotele - tutti gli enti che si generano per natura sarebbero o dei contrari o <cose che derivano> da contrari (hôste pant' an eiê ta phusei gignomena ê enantia ê ex enantiôn 188b25-26)». Nella rimanente parte di Phys. I 5 Aristotele, al fine di confutare i suoi predecessori, imposta un discorso sui contrari che meriterebbe certo di essere approfondito, ma il cui approfondimento esula dallo scopo di questo studio.14 14 Rimando a E. Berti, Sul carattere "dialettico" della storiografia filosofica di Aristotele, in G. Cambiano cur., Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Padova 1985, pp. 101-125; si vd. anche G.R. Giardina, I fondamenti della fisica. Analisi critica di Aristotele, Phys. I, Catania 2002, pp. 81-92. Qui basti dire che, secondo Aristotele, non è sufficiente ammettere come principi i contrari, e che, come si è già visto a proposito di Phys. I 4 - in cui lo Stagirita ha parlato, da un lato, con riferimento soprattutto ai fisiologi monisti, di un unico corpo soggiacente originario dalla cui trasformazione, per densità o radità, nascerebbero le cose naturali e, dall'altro lato, con riferimento soprattutto ad Anassagora, di una molteplicità di elementi materiali presenti nella mescolanza e di un elemento materiale preponderante in ogni singolo principio omeomere -, è necessario ammettere anche un terzo principio che è appunto il sostrato. Anzi, a ben riguardare, sembrerebbe che all'inizio di Phys. I 5 Aristotele imposti il suo discorso, volto a individuare quanti e quali siano i principi, iniziando con l'assunzione secondo cui tutti concordano nell'assumere come principi i contrari, proprio perché da tutta la precedente argomentazione era risultata ovvia semmai l'assunzione, da parte di tutti i Presocratici e di Platone, dell'altro principio, e cioè della materia quale sostrato. Ed è appunto la questione relativa a questo terzo principio, appunto il sostrato, che Aristotele affronta più dettagliatamente in Phys. I 6.

Una volta stabilito che i principi sono di numero finito e sono precisamente i contrari primari, che non possono essere se non due soltanto, allora emergono delle ragioni, sostiene Aristotele, per cui è logico pensare che i principi non sono solo due (epei de peperasmenai, to mê poiein duo monon echei tina logon - 189a21-22), perché nessun contrario agisce sull'altro contrario e si potrebbe sollevare il problema di come, ad esempio, la densità agisca sulla radità o la radità sulla densità, laddove, invece, entrambi agiscono su un terzo termine diverso da essi (all' amphô heteron ti triton - 189a25-26). E a questo proposito Aristotele accenna a dei filosofi che assumono più di due principi (enioi de kai pleiô lambanousin) e precisamente considerano principi tutti quegli elementi a partire dai quali essi costruiscono la natura degli enti (kataskeuazousi tên tôn ontôn phusin - 189a26-27). Con questo accenno alla natura degli enti Aristotele si riferisce ai filosofi pluralisti, che pongono una molteplicità di principi materiali, ribadendo implicitamente quanto ha già sostenuto in Phys. I 4 a proposito del fatto che il principio materiale unitario (per i monisti) o molteplice (per i pluralisti) costituisce il sostrato ovvero la phusis degli enti. Anche qui, in Phys. I 6, sembrerebbe che Aristotele stia spostando il discorso dal problema dei contrari come principi del divenire verso l'esigenza di un altro principio senza il quale non può realizzarsi la dialettica dei contrari. In altri termini, se prima Aristotele aveva presentato le teorie dei predecessori, sia dei materialisti che di Platone, come teorie che riconoscevano nel sostrato il principio materiale della realtà, ora sta preparando la teoria secondo cui il sostrato quale principio è necessario affinché si possa esercitare su di esso l'azione dei due contrari, privazione e forma. Inoltre, è precisamente ciò che qui è chiamato la natura degli enti, tên tôn ontôn phusin, che sarà individuato come terzo principio, cioè appunto come sostrato. Infatti, Aristotele a questa prima difficoltà, secondo la quale nessun contrario agisce sull'altro, ne aggiunge una seconda, dicendo quanto segue: «se non si porrà sotto i contrari una natura diversa da essi (ei mê tis heteran hupothêsei tois enantiois), si andrà incontro a questa difficoltà, perché vedremo che i contrari non sono sostanza di nessuno degli enti (outhenos gar horômen tôn ontôn ousian tanantia), d'altra parte occorre che il principio non sia detto di alcun soggetto (tên d'archên ou hath' hupokeimenou dei legesthai tinos), perché <in tal caso> ci sarà un principio del principio, giacché il soggetto è un principio e sembra essere anteriore al suo predicato (estai gar archê tês archês. to gar hupokeimenon archê, kai proteron dokei tou katêgoroumenou einai). E ancora, non diciamo che una sostanza è contraria a una sostanza: come dunque una sostanza potrebbe derivare da non sostanze? O come una non sostanza potrebbe essere prima di una sostanza? (eti ouk einai phamen ousian. pôs oun ek mê ousiôn ousia an eiê; ê pôs an proteron mê ousia ousias eiê; - 189a28-33)». In questo passaggio Aristotele, parlando dell'esigenza di porre sotto i contrari quel principio che nella sua teoria è chiaramente il sostrato, hupokeimenon, chiama quest'ultimo "una natura diversa" (heteran phusin) rispetto ai contrari, mostrando distintamente che un modo in cui è possibile intendere la nozione di phusis, prima che di essa si dìa una teoria specifica, è appunto quello di hupokeimenon. La necessità di porre sotto i contrari il sostrato-natura dipende dal fatto che i contrari non sono sostanza, ousia, di nessuno degli enti, dal che si ricava che è il terzo principio, cioè l'hupokeimenon, e non i contrari come principi, a doversi considerare quale ousia.15 15 Cf. anche Phys. I 9, 192a5-6. Il sostrato, inoltre, è di per sé un principio e quindi non si può predicare di se stesso come principio, per cui il sostrato è principio alla stessa stregua dei contrari, cioè in senso primario. Ma il sostrato, che è uno dei modi in cui dobbiamo intendere la phusis, è un principio che non ha contrario, per il fatto che esso è anche uno dei modi in cui dobbiamo intendere la sostanza, ousia, e la sostanza non ha contrario.16 16 Aristot. Cat. 5, 3b24 ss. Cf. J.P. Anton, Aristotle's Theory of Contrariety, Lanham (MD) 1987 (I ed. London 1957); J. Bogen, Aristotelian Contraries, «Topoi», 10 (1991), pp. 53-66. In effetti, in Cat. 5, 4a10-11 troviamo un altro accostamento fra il sostrato e la sostanza, in quanto viene detto esplicitamente della sostanza quanto è proprio del sostrato, e cioè che «sembra essere massimamente proprietà della sostanza esser capace di accogliere i contrari pur essendo qualcosa di identico e di numericamente uno»; ma anche in Meta. VII 3 Aristotele analizza come primo significato di sostanza quello di sostrato, affermando che il sostrato è ciò di cui vengono dette le altre cose, mentre esso non è detto delle altre cose (1028b36-37).17 17 Cf. A. Jaulin, Eidos et ousia. De l'unité théorique de la Métaphysique d'Aristote, Klincksieck 1999, pp. 91-92. Sull'espressione secondo cui le altre cose si predicano del sostrato cf. C.H. Chen, On Aristotle's Two Expressions kath' hupokeimenou legesthai and en hupokeimenôi einai, «Phronesis», 2 (1957), pp. 148-159; K. von Fritz, Once more kath' hupokeimenou and en hupokeimenôi, «Phronesis», 3 (1958), pp. 72-74. Tuttavia, nelle Categorie Aristotele accosta la sostanza al sostrato in virtù dell'identificazione con la materia di un loro comune aspetto, cioè della capacità, comune a sostanza e sostrato, di accogliere i contrari: essendo, infatti, sotto questo aspetto, sia la sostanza che il sostrato qualcosa di identico e numericamente uno, è possibile far coincidere questa loro proprietà con la condizione di potenzialità della materia, e tuttavia quest'ultima, come si comprenderà più avanti, non esaurisce il significato di hupokeimenon o hupokeimenê phusis in Aristotele. L'identificazione del sostrato con la sostanza non è del resto un fatto che può sorprendere il lettore di Aristotele,18 18 Vd. T. Scaltsas, Substratum, Subject, and Substance, «Ancient Philosophy», 5 (1985), pp. 215-240. né può sorprendere il fatto che il sostrato venga identificato con un certo modo di intendere la phusis, se si pensa che lo stesso Aristotele, parlando del principio materiale dei fisiologi monisti e di Platone, nonché della molteplicità dei principi materiali dei fisiologi pluralisti, ha considerato tali principi alla stregua di sostrato e di phusis, a parte il fatto che uno dei significati originari di phusis presso i filosofi presocratici è appunto quello di elemento materiale da cui ha origine l'essere e lo sviluppo degli enti naturali, oppure ancora quello di materia prima.19 19 Per questi significati di phusis cf. Aristot. Meta. V 4, 1014b26 ss. e 1015a7-10. D'altra parte, anche qui in Phys. I 6, le difficoltà proposte, secondo cui i contrari non agiscono l'uno sull'altro né sono sostanza di nessuno degli enti, si superano soltanto ponendo un terzo principio (hupotithenai ti triton), «come affermano coloro che dicono che il tutto è una certa natura unica (hôsper phasin hoi mian tina phusin einai legontes to pan), ad esempio l'acqua o il fuoco o ciò che è intermedio fra questi (189b1-2)»: ancora una volta il sostrato viene significato per mezzo del termine phusis. A quest'ultimo proposito, infatti, Aristotele aggiunge che sembra preferibile considerare come principio sostratico l'intermedio, per il fatto che fuoco, terra, acqua ed aria sono coinvolti nella contrarietà, «perciò, anche, coloro che pongono il sostrato come <principio> diverso da questi - continua Aristotele - non lo fanno senza ragione (dio kai ouk alogôs poiousin hoi to hupokeimenon heteron toutôn poiountes) - 189b5-6». Inoltre, stabilito che i principi sono tre, e non possono essere più di tre, alla fine di Phys. I 6 Aristotele insiste sull'identificazione fra phusis" e hupokeimenon dicendo che, se i contrari fossero quattro e non due, allora le contrarietà sarebbero due e occorrerebbe un'altra certa natura intermedia e separata per ciascuna contrarietà (deêsei chôris hekatera huparchein heteran tina metaxu phusin - 189b19-21), cioè una natura-sostrato per ciascuna delle due contrarietà.

Se però, come ho detto, non sorprende il fatto che Aristotele pensi che uno dei modi di intendere la phusis sia quello di sostrato, almeno in ragione del modo in cui gli stessi fisiologi precedenti ad Aristotele hanno inteso la phusis - modo di cui Aristotele è ben consapevole -, tuttavia ci si accorgerà facilmente che questa impostazione dell'analisi condurrà Aristotele ad attribuire al sostrato-natura, all'interno della sua propria teoria dei principi, uno statuto o una funzione che la materia-natura dei Presocratici non ha e in virtù della quale egli potrà mostrare gli errori insiti nella filosofia degli Eleati (Phys. I 8) e di Platone (Phys. I 9). In altri termini, l'assimilazione delle tre nozioni di hupokeimenon, phusis, e ousia che si è fin qui vista, è dovuta al fatto che Aristotele riconosce come comune denominatore di queste nozioni il fatto che uno dei sensi in cui esse possono essere intese è quello di materia. Questa assimilazione è particolarmente accettabile in questi capitoli di Phys. I nella misura in cui Aristotele non ha effettivamente ancora indagato sui propri principi del divenire, ma ha piuttosto presentato le teorie dei suoi predecessori. Costoro, nonostante le differenze che li contraddistinguono, hanno tutti supposto una materia indeterminata quale sostrato della realtà naturale, e quello di materia è in effetti uno dei significati che Aristotele attribuisce sia alla natura che alla sostanza. Ma, come si vedrà qui di seguito, se il sostrato per Aristotele è la materia, ed i predecessori non hanno sostenuto quindi posizioni del tutto scorrette sostenendo che la materia è il sostrato della realtà, tuttavia, nell'ambito del divenire, Aristotele si appresta, secondo la mia interpretazione, a fondare una nozione di sostrato quale principio del divenire che si identifica piuttosto con una materia funzionale, cioè con una materia che funge da sostrato del divenire solo quando si associa a una specifica privazione di forma che fa di essa precisamente ciò che diviene. La svolta che Aristotele impone al significato della nozione di sostrato-natura nella sua nuova teoria dei principi del divenire emerge da Phys. I 7.

3. Per una nuova nozione di hupokeimenon o hupokeimenê phusis: la teoria di Phys. I 7

In Phys. I 7 Aristotele imposta la sua propria teoria dei principi del divenire dicendo subito che intende affrontare il problema in generale, parlare cioè anzitutto di ogni divenire (hêmeis legômen prôton peri pasês geneseôs - 189b30), perché è naturale parlare prima delle cose universali, in modo da considerare poi le singole cose particolari (esti gar kata phusin ta koina prôton eipontas houtô ta peri hekaston idia theôrein - 189b31-32). «Ebbene noi diciamo - precisa Aristotele - che una cosa nasce dall'altra e il diverso dal diverso, e parliamo sia delle cose semplici che di quelle composte (phamen gar gignesthai ex allou allo kai ex heterou heteron ê ta hapla legontes ê ta sunkeimena) - 189b32-34». Aristotele conduce la sua analisi tramite espressioni linguistiche che rimandano ad altrettante condizioni di realtà, e propone tre esempi particolari che indicano in modo diverso un medesimo processo di divenire: "un uomo diviene musico", "un non musico diviene musico", "un uomo non musico diviene uomo musico". Come termini semplici Aristotele intende sia il diveniente (to gignomenon) sia il divenuto (ho gignetai) delle prime due proposizioni,20 20 Queste due espressioni, to gignomenon e ho gignetai, non sempre indicano, come avviene in questo caso, rispettivamente il diveniente e il divenuto. Questa mancanza di univocità nell'utilizzo di queste due espressioni è stata notata da W. Wieland, op. cit., p. 142 nota 68 e pp. 155 ss., il quale sottolinea però come to gignomenon indichi in ogni caso il soggetto. e come termine composto intende sia il diveniente sia il divenuto della terza proposizione. In breve, poiché si tratta di teoria nota,21 21 Su Phys. I 7 cf. W. Wieland, op. cit., pp. 139-171; G.R. Giardina, I fondamenti della fisica cit., pp. 95-112. Aristotele considera la terza proposizione, in cui entrambi i termini, cioè il diveniente e il divenuto, sono composti da soggetto e predicato, come quella che fa comprendere anche le due precedenti proposizioni, perché essa fa cogliere chiaramente che, pur nel divenire della proprietà e quindi dell'ente a cui tale proprietà appartiene, c'è sempre qualcosa che permane (hupomenei) e che sottrae il divenire stesso alla dialettica del rapporto essere-non essere rivelatasi impossibile a partire dalla filosofia degli Eleati. È infatti un confronto diretto con la filosofia eleatica in merito al problema della realtà del divenire che Aristotele si prefigge in Phys. I 7, se è vero che egli sottolinea subito, alle li. 190a5-8, ciò che preciserà meglio più avanti alle li. 190a21 ss., e cioè che il discorso che esprime il divenire secondo la formula "qualcosa diviene qualcosa" (tode gignesthai ti) è il medesimo che esprime il divenire secondo la formula "da qualcosa diviene qualcosa" (ek tinos gignesthai ti) nel caso in cui il principio che viene assunto come termine da cui (ek) qualcosa diviene sia quello che nel divenire non permane, cioè la privazione. Se infatti è vero che si possono usare entrambe le formule sia nel caso che si assuma come diveniente ciò che non permane, cioè la privazione, sia nel caso che si assuma come diveniente ciò che permane, cioè il soggetto, tuttavia la formula "da qualcosa diviene qualcosa" è preferibile (mallon, dice Aristotele alla li. 190a22) rispetto all'altra nel caso che si assuma come diveniente ciò che non permane, mentre se si assume come diveniente ciò che permane tale formula si può applicare solo in alcuni casi (eniote, li. 190a24). È poi chiaro che nei casi in cui il divenire viene detto con formule composte, nelle quali quindi la proprietà di cui il diveniente è privo e che nel divenire non permane è sempre espressa chiaramente, si potranno utilizzare entrambe le espressioni, cioè sia quella che dice che "qualcosa diviene qualcosa" sia quella che dice che "da qualcosa diviene qualcosa".22 22 Cf. W. Wieland, op. cit., pp. 144-150, ma anche il mio I fondamenti della fisica cit., pp. 106 ss. Ora, tutto questo discorso che Aristotele fa in Phys. I 7 svolge una duplice funzione: la prima è quella di precisare che la verità che si trova impostando la ricerca sul divenire tramite le tre proposizioni citate sopra - cioè "un uomo diviene musico", "un non musico diviene musico", "un uomo non musico diviene uomo musico" - vale come soluzione della negazione eleatica del divenire dell'essere dal non essere, perché l'equivalenza delle due formule, anzi la preferibilità della formula che esprime il divenire come divenire "da" (ek) nel caso in cui nel diveniente compaia la privazione come non essere, converte in affermazione, e quindi in positivo, la negazione di Parmenide del divenire dell'essere dal non essere;23 23 Si ricorderà che nel fr. 8,6-8 D.-K. Parmenide impedisce di dire e di pensare il divenire dell'essere dal non essere con queste espressioni interrogative: « tina gar gennan dizêseai autou; pêi pothen auxêthen; oud' ek mê eontos eassô phasthai s'oude noein». la seconda funzione consiste nel fatto che ciò che diviene è presentato da Aristotele come qualcosa che ha un duplice aspetto, quello della permanenza dell'essere e quello della non permanenza della privazione quale non essere. In tutto il capitolo Phys. I 7 Aristotele gioca, per così dire, sullo scambio della triplicità dei principi con la duplicità di ciò che diviene (perché ciò che diviene è sempre un soggetto insieme con una forma, da considerare - quest'ultima - nel modo dell'assenza o della presenza), ed è precisamente nelle pieghe di questo gioco di scambio che si deve comprendere il vero carattere di quella che Aristotele chiama hupokeimenê phusis. Ma vediamo di procedere per gradi.

Ciò che permane sempre, sostiene Aristotele, anche nelle espressioni in cui sembra scomparire per il fatto che dopo il "diviene", cioè nella seconda parte della proposizione, non si trova più, è precisamente il soggetto della proposizione, cioè, nella fattispecie degli esempi, l'uomo. Infatti, alle li. 190a13 ss., Aristotele precisa che, una volta che si è fatta distinzione fra ciò che permane e ciò che non permane nel divenire degli enti, se noi assumiamo il divenire tenendo conto che le cose divengono «da tutte quante le cose che divengono (ex hapantôn tôn gignomenôn - 190a13)», nel senso che ciascun ente diviene a partire da (ek) un diveniente, noi dobbiamo assumere conseguentemente questa condizione, e cioè che «occorre che ci sia sempre qualcosa che soggiace, che è ciò che diviene, e che questo, se anche è uno per numero non è tuttavia uno per forma (dei ti aei hupokeisthai to gignomenon, kai touto ei kai arthmô estin hen, all' eidei ge ouch hen - 190a,14-16).24 24 Sono d'accordo con Sh. Cohen, Aristotle's Doctrine of the Material Substrate, «The Philosophical Review», 93 (1984), p. 182, sul fatto che, come mostra anche Denniston ( The Greek Particles, Oxford 1966, II ed., pp. 301-305), non si debba dare una lettura assertiva ma concessiva di eij kaiv e che l'unicità numerica del sostrato non indichi l'identità del sostrato per tutti i tipi di mutamento. Al contrario, Aristotele sta qui stabilendo la duplicità formale del sostrato pur nella sua unicità numerica. Quest'ultima indicazione è estremamente rilevante ai fini della comprensione del carattere del sostrato aristotelico ed è lo stesso Aristotele che si appresta a spiegarla: dire "per forma" significa la stessa cosa che dire "per definizione" (to gar eidei legô kai logô tauton - 190a16-17). L'uomo non musico è infatti uno numericamente, ma è duplice dal punto di vista formale, perché l'essere dell'uomo non è la stessa cosa che l'essere del non musico, chiarisce Aristotele, perché mentre l'essere dell'uomo permane, l'essere del non musico non permane (ou gar tauton to anthrôpô kai to amousô einai. kai to men hupomenei, to d' ouch hupomenei - 190a17-18), nel senso che permane ciò che non costituisce una proprietà antitetica come in questo esempio è l'uomo (to men mê antikeimenon hupomenei (ho gar anthrôpos hupomenei) - 190a18-19), mentre non permane ciò che funge da proprietà antitetica a quella che si genera nel processo del divenire, cioè il non musico se si genera il musico o il musico se si genera il non musico. Inoltre, non permane nemmeno ciò che è composto da entrambi i termini, l'uno non antitetico e l'altro antitetico alla proprietà che si genera, cioè non permane l'uomo non musico se si genera l'uomo musico o, viceversa, non permane l'uomo musico se si genera l'uomo non musico (190a20-21).

Aristotele non ha fin qui detto che il sostrato degli enti che divengono è, a suo modo di vedere, la materia; del resto, se avesse affermato questo in questa fase della sua argomentazione, sarebbe apparso che egli non dicesse sostanzialmente nulla di diverso da quanto avevano affermato prima di lui i filosofi della natura ed il suo sostrato non sarebbe stato pertanto diverso dal principio materiale di cui avevano parlato i suoi predecessori. Invece, se da un lato è vero che, essendo i due principi fra loro contrari dei principi di natura formale - intendo dire l'eidos e la sua privazione che è essa stessa in certo qual modo eidos, come Aristotele stesso sottolinea in Phys. II 1, 193b19-20, dicendo hê sterêsis eidos pôs estin -,25 25 Allo stesso modo in Aristot. Meta. VII 7, 1032b4 ss., la sostanza della malattia è la salute perché la malattia è assenza di salute. il terzo principio, cioè il sostrato, potrebbe di conseguenza apparire, per semplice esclusione, materia, d'altra parte non è in quanto materia che esso è sostrato, bensì, come sarà maggiormente chiaro più avanti, in quanto materia privativa, cioè in quanto materia che è di per se stessa sì formalmente determinata (ed è quindi un ente, che, in quanto si presta a divenire un'altra cosa, funge da base materiale di quest'altra cosa), ma che tuttavia ammette anche una specifica assenza di forma che la rende accidentalmente non essere in rapporto diretto con l'essere. È dunque in ragione di questa privazione di forma che la materia assume il ruolo di sostrato, perché la privazione del sostrato costituisce la sua attitudine ad assumere una precisa determinazione formale in cui consiste l'essere (la sterêsis è sempre in rapporto all' eidos di cui essa è appunto privazione o non essere), ed è appunto nella specificità di questa attitudine, piuttosto che nella sua natura materiale che rappresenterebbe peraltro una potenzialità quale indeterminazione non certo totale ma sicuramente ad ampio spettro, che consiste la funzione sostratica del terzo principio. In questo modo il sostrato, in quanto è l'ente che diviene, to gignomenon, pur essendo numericamente uno, presenta tuttavia una duplicità formale, perché da una parte è ciò che esso è, ad esempio l'uomo o il bronzo, e dall'altra parte può accogliere l'essere di ciò che non è, cioè ha una privazione che, in quanto è non essere in rapporto all'essere della forma sulla base della quale si determina come non essere, è almeno sotto questo profilo una determinazione, in quanto cioè è non essere dell'essere. È l'uomo non musico, nell'esempio che qui fa Aristotele, il sostrato del processo di divenire che condurrà all'uomo musico nella misura in cui è formalmente duplice, come dire che il sostrato è essere in due modi, perché è uomo ed è non musico, e se l'uomo è una materia formalmente determinata, ma che ha la potenza di acquisire diverse forme, il non musico è quella individua privazione di essere che rende "questo" uomo sostrato di "questo" processo di divenire che condurrà all'uomo musico. In virtù di questa sua duplicità formale il sostrato aristotelico si configura, quindi, non più o non tanto come materia nel modo in cui l'avevano concepito i filosofi naturalisti precedenti ad Aristotele, ma precisamente come un principio che occupa una precisa posizione nell'ambito dei processi di divenire e svolge una altrettanto precisa funzione, quella cioè di principio necessario e adatto ad accogliere i contrari assicurando la permanenza dell'essere nel divenire, nella misura in cui Aristotele ottiene con il sostrato quale materia individua ma insieme privativa, al contempo l'essere della materia individua e il non essere della privazione che permette il divenire. In altri termini, la duplicità formale che costituisce, in Aristotele, la struttura del concetto di hupokeimenon come to gignomenon consente che esso possa essere considerato nello stesso tempo sia come ciò che nel divenire permane sia come ciò che è privo della determinazione che ad esso conferirà l'eidos compiutamente acquisito ed appare quindi al contempo come essere e come essere del non essere che consente il divenire.26 26 Il sostrato quale materia privativa, infatti, diviene qualcosa in quanto è ciò che "non è" quella determinata cosa che diviene. Cf. W. Wieland, op. cit., pp. 164 ss. Grazie a questa duplicità della natura formale del sostrato, la sua natura privativa, ovvero l'aspetto secondo cui esso è privo di una precisa determinazione formale e perciò si presta a divenire un determinato qualcos'altro, in nulla contrasta con l'aspetto della sua permanenza, di quella permanenza, cioè, che è fondamentale affinché Aristotele possa, come crede sia necessario, sottrarre il divenire alla inaccettabile dialettica essere-non essere che è propria degli Eleati.

Ancora, l'osservazione di Aristotele secondo cui il composto non permane, perché nel divenire uomo musico l'uomo non musico non permane, indica che il modello di divenire proposto in questo capitolo Phys. I 7 vale come modello teorico per ogni processo di divenire - peri pasês geneseôs appunto, come dice Aristotele alla li. 189b30 con la precisa intenzione di fornire una teoria del divenire che sia valida per tutti i tipi di questo processo -, cioè non solo per il divenire della qualità, della quantità e del luogo, ma anche per il divenire della sostanza. Infatti, se assumiamo come esempio l'uomo musico, esso è, come si è detto, uno numericamente ma due formalmente, cioè uomo e musico, e lo stesso accade nel caso dell'uomo non musico, che è anch'esso uno numericamente ma due formalmente, cioè uomo e non musico. Perciò nel divenire dell'uomo musico o dell'uomo non musico permane l'uomo, mentre non permangono né le semplici proprietà, cioè musico o non musico, né i composti, cioè uomo musico o uomo non musico (190a17-21). Nondimeno, se è vero che, considerando il processo sotto il profilo secondo cui una proprietà si sostituisce a quella contraria, ci troviamo di fronte a un caso di alterazione, è altrettanto vero che, considerando il medesimo processo sotto il profilo che radicalizza questa trasformazione, per cui l'uomo non musico non esiste più perché al suo posto si è generato l'uomo musico, allora questo modello, che in Phys. I 7 descrive il divenire, appare adatto a descrivere anche processi di generazione e di corruzione in senso assoluto.27 27 Ho cercato di mostrare che questa descrizione del divenire di Phys. I 7 costituisce il modello di base per ogni tipo di mutamento in G.R. Giardina, La chimica fisica di Aristotele. Teoria degli elementi e delle loro proprietà. Analisi critica del De generatione et corruptione, Roma 2008, pp. 89-92, anche se non penso affatto che ciò implichi che si debba ammettere in Aristotele un sostrato unico per tutti i mutamenti, vd. pp. 83 ss. Ci sono studiosi di Aristotele che ritengono, però, che questo passaggio 190a13-21 si riferisca soltanto ai processi di alterazione, cf. W. Charlton, Aristotle's Physics I, II, Oxford 1970, p. 73; B. Jones, Aristotle's Introduction of Matter, «The Philosophical Review», 83 (1974), pp. 478-479; R. Dancy, On Some of Aristotle's Second Thoughts about Substances: Matter, «The Philosophical Review», 87 (1978), p. 385 n. 35. Vd. contra Sh. Cohen, Aristotle's Doctrine of the Material Substrate cit., pp. 181-182 e n. 16. Non a caso, infatti, dopo aver detto che il divenire si dice in molti modi (pollachôs de legomenou tou gignesthai - 190a31), Aristotele precisa che, mentre nel caso di alcune cose non si dice che "divengono" sic et simpliciter, ma si parla di divenire in senso relativo, cioè si dice che "divengono questa certa cosa" (kai tôn men ou gignesthai alla tode ti gignesthai - 190a31-32) ed è chiaro, in questi casi, che divengono da qualcosa che soggiace, che si conferma sempre come ciò che diviene (vd. 190a33-34 e 36), perché è solo la sostanza che non è detta di nessun sostrato che le soggiaccia mentre tutte le altre cose sono dette della sostanza come loro sostrato, invece soltanto nel caso delle sostanze, avverte Aristotele, si dice che "divengono" sic et simpliciter (haplôs de gignesthai - 190a32) e si rischia di non vedere che anche nel caso delle sostanze la generazione avviene a partire da un sostrato (ex hupokeimenou tinos - 190b2), cosa che appare chiara a chi indaghi attentamente. Ora, tutto questo discorso in cui Aristotele dimostra come il modello di divenire proposto in Phys. I 7 valga anche nel caso del divenire della sostanza, nel quale come è noto muta sia la materia sia la forma,28 28 Vd. Aristot. GC I 4, 319b14-18. conferma una volta di più che se è vero che il sostrato può essere identificato con la materia che assicura la permanenza pur nel divenire, tuttavia non è in quanto materia che il sostrato è sostrato, giacché il sostrato si individua piuttosto in una funzione, che è quella di assicurare la permanenza dell'essere durante l'avvicendamento dei contrari, per cui nel caso della generazione in senso assoluto accade che la materia si muta essa stessa, mentre è possibile al contempo tenere fermo che il sostrato, che si identifica in ogni momento del processo con una materia privativa, continui a far da base al determinarsi di una forma specifica. In virtù di un ragionamento analogo, in GC I 3, 319b2-4 Aristotele può asserire con coerenza che la materia della terra e la materia del fuoco è in un senso identica e in un altro senso diversa, perché è identica se viene intesa quale sostrato, cioè come fondamento che consente in se stesso un avvicendamento dei contrari, mentre è diversa se viene considerata quale materia individua, giacché la materia del fuoco è diversa dalla materia della terra.29 29 Su questa questione cf. G.R. Giardina, La chimica fisica di Aristotele cit., pp. 83-92; nello stesso volume alla p. 83 nota 1 si troverà la bibliografia relativa all'argomento. In tal modo risulta evidente che la nozione di materia dei fisiologi presocratici non può soddisfare, come ho detto, tutte quelle condizioni che per Aristotele sono necessarie a individuare il sostrato quale principio del divenire, poiché il sostrato per Aristotele è in fin dei conti sempre ciò che diviene, to gignomenon, e come tale è una materia che si accompagna a una contrarietà, è cioè un ente visto sotto il profilo in base al quale è privo di una specifica forma, per cui se è numericamente uno è però al contempo formalmente duplice. Per questa ragione si legge anche in GC II 1, 329a13 ss. che il principio materiale del Timeo platonico non può soddisfare le condizioni sulla base delle quali Aristotele individua il suo sostrato: Aristotele prende di mira il ricettacolo universale di Platone, to pandeches di Tim, 51a7, assumendo l'esempio, che Platone fa in Tim. 50a-b, dell'oro e dei manufatti aurei da cui emerge che la chôra sarebbe un principio sostratico che permane sempre a prescindere dalle diverse forme degli enti di cui essa costituisce la materia indeterminata, questi sì mutevoli al contrario della chôra che appare quale principio materiale immutabile. Un tale sostrato che coincide con una materia che non muta, osserva Aristotele, può valere sì nel caso dell'alterazione, ma non nel caso della generazione assoluta - in cui per Aristotele anche la materia muta -, né si può concepire una materia immutabile, quale quella platonica, come principio di ogni generazione come se fosse una nutrice: a questo concetto Aristotele oppone quello di una certa materia dei corpi sensibili (tina hulên tôn sômatôn tôn aisthêtôn - GC II 1, 329a24-25) che non è mai separata, ma al contrario si accompagna sempre ad un contrarietà (ou chôristên all' aei met' enantiôseôs - 329a25-26), dalla quale si generano i cosiddetti elementi (ex hês gignetai ta kaloumena stoicheia - 329a26). Il sostrato come diveniente, quindi, e cioè come materia insieme con una privazione, ovvero come ente numericamente uno e formalmente duplice, è precisamente ciò da cui, ek, deriva ogni tipo di divenire.

Ritornando alla Fisica, diviene ormai comprensibile come Aristotele, nell'arco di poche linee di Phys. I 7, possa ribadire più volte il concetto secondo cui il sostrato è un principio sempre necessario al divenire, in quanto è appunto ciò che diviene, senza del quale quindi non si dà divenire alcuno (dice dei ti aei hupokeisthai to gignomenon alle li. 190a14-15; phaneron hoti anankê hupokeisthai ti to gignomenon alle li. 190a33-34 a proposito delle generazioni relative), assieme alla precisazione, altresì, che il sostrato costituisce sì ciò che diviene, ma anche ciò a partire da cui diviene ciò che diviene (dice infatti: aei gar esti ho hupokeitai, ex hou ginetai to gignomenon alle li. 190b3-4; e ancora: panta de ta houtô gignomena phaneron hoti ex hupokeimenôn gignetai alle li. 190b9-10). Nell'esempio dell'uomo non musico è il sostrato che diviene, to gignomenon, ed è anche ciò a partire da cui diviene ciò che diviene, ex hou ginetai to gignomenon. Il sostrato così concepito, in quanto uno numericamente ma dotato di una duplicità di essere, è l'ex hou che sostituisce l'ek mê eontos di Parmenide rendendo possibile un divenire interno all'essere, sicché, dopo aver elencato i diversi modi del divenire, alla li. 190b10 Aristotele può sostituire l'ek mê eontos di Parmenide con ex hupokeimenôn ginetai. D'altra parte, la realtà unitaria del sostrato non deve mai far perdere di vista il suo carattere duplice, tant'è vero che in Meta. VII 7, da un lato Aristotele può dire che ciò da cui le cose si generano è ciò che chiamiamo materia (1032a17), che tutte le cose che si generano hanno materia e che la materia è in ciascuna cosa la potenzialità di essere o di non essere (1032a20-22) e ancora che la materia è sostrato (1033a9-10), e dall'altro lato può affermare anche che ciò che diviene diviene sia dalla privazione che dal sostrato (ek tês sterêseôs kai tou hupokeimenou, termine con cui noi chiamiamo la materia - ho legomen tên hulên - dice Aristotele), e tuttavia si dice più comunemente (mallon) che le cose divengono dalla privazione (ek tês sterêseôs), come quando diciamo che un tale da malato diviene sano e non diciamo che da uomo diviene sano, e perciò di chi è guarito diciamo che è un uomo sano e non un malato sano (1033a10-13). Perché è la privazione, in fin dei conti, il non essere da cui si genera l'essere, ma la privazione non esiste se non in quanto appartiene a un sostrato.

A partire dalla li. 190b10 Aristotele ribadisce che ciò che diviene è sempre composto e c'è da una parte qualcosa che diviene (scil. l'uomo musico) e dall'altra parte qualcosa che diviene questa certa cosa e che è duplice, perché di essa si può cogliere o l'aspetto di sostrato, oppure quello di opposto, cioè di privazione della forma che si realizza nel divenire, (esti de ti ho touto gignetai, kai touto ditton. ê gar to hupokeimenon ê to antikeimenon), e se come sostrato Aristotele indica l'uomo, il bronzo, la pietra o l'oro, come opposto indica la privazione di forma (amorphian) quale il non musico (amouson).30 30 Per indicare la proprietà opposta, Aristotele adopera non più, come ha fatto prima, la negazione della stessa proprietà, cioè non musico ( mê mousikon), bensì lo stesso termine che indica la proprietà positiva con l' a privativo, cioè amouson. Se è vero che gli enti naturali hanno cause e principi da cui attingono sia l'essere che il divenire e in modo non accidentale, ma in modo tale che ciascuna cosa viene detta ciò che è secondo la propria sostanza, è chiaro, sostiene Aristotele, che tutto ciò che diviene, diviene a partire da un sostrato e da una forma,31 31 La forma è qui indicata da Aristotele con il termine morphê, che è da una parte forma specifica, eidos, e dall'altra parte privazione, sterêsis. Sono d'accordo con L. Couloubaritsis ( La Physique d'Aristote, deuxième édition modifiée et augmentée de L'avènement de la science Physique, Bruxelles 1997, pp. 243 ss.) nel ritenere che l'intepretazione tradizionale che unifica morphê ed eidos sotto la designazione di "forma" sia errata e insufficiente. Vd. a questo proposito Simplicio, In Phys. 276,24 ss.; Filopono, In Phys. 215,8 ss. perché uomo musico è composto da uomo e da musico ed è possibile sciogliere le definizioni di entrambi nelle definizioni di ciascuno dei due.32 32 Cf. Aristot. Meta. VII 4. Poco più avanti, dopo aver ribadito che il sostrato è uno numericamente ma duplice formalmente (190b23-24), Aristotele spiega che il sostrato, come ad esempio l'uomo e l'oro, in generale è la hulê arithmêtê, cioè è una materia numerabile nel senso che è individua, poiché si tratta di un ente che di per se stesso è determinato, tode gar ti mallon dice Aristotele alle li. 190b25-26,33 33 In GC I 2, 317a23-24, Aristotele attribuisce al sostrato sia il carattere formale che quello materiale: En gar tô hupokeimenô to men esti kata ton logon, to de kata tên hulên. Su entrambi questi passaggi punta la sua attenzione Sh. Cohen, Aristotle's Doctrine of the Material Substrate cit., p. 189, per mostrare che il sostrato è un principio composto in quanto comprende sia la materia che la forma. ma che, se visto in rapporto a un divenire - ad esempio al divenire musico dell'uomo - funge da materia nel senso di fondamento materiale che accoglie i contrari. Ciò che diviene a partire dal sostrato, continua Aristotele, non diviene in modo accidentale, al contrario ciò che è accidentale è la privazione: lo Stagirita anticipa con questo breve passaggio quanto dirà più chiaramente in I 8, in cui spiegherà che il sostrato non è non essere per sé ma per accidente, in quanto ad esso si associa una specifica privazione che è non essere in senso assoluto. Il carattere di sumbebêkos che il sostrato acquista tramite la sua unione con la privazione è ciò che fa sì che a partire da esso, in quanto si profila come un ente che non è una data cosa, sia possibile il suo divenire questa data cosa.

A questo punto Aristotele può mostrare in modo più esplicito come i tre principi sembrino dissolversi in una duplicità funzionale dovuta al carattere di ciò che diviene (perché ciò che diviene è sempre un soggetto insieme con una forma, da considerare - quest'ultima - nel modo dell'assenza o della presenza), e riconfermare al tempo stesso che, tenuto conto del fatto che l'ente che diviene è sempre un composto di cui uno dei due termini, la forma, è da considerarsi duplice, cioè o come assente o come presente, è assolutamente necessario che i principi del divenire siano tre, cioè sostrato, forma e privazione (è evidente, infatti, che la composizione non può riguardare i due contrari, cioè privazione e forma, ovverosia assenza e presenza della forma, ma sempre il sostrato con l'uno o l'altro dei questi due contrari, ovvero o con la privazione, e sarà il diveniente, o con la forma, e sarà il divenuto). A partire da 190b29 Aristotele afferma, infatti, che occorre parlare dei principi da un lato come se fossero due (hôs duo), ma dall'altro lato come se fossero tre (hôs treis), perché da un lato sembra che si debba parlare dei principi come contrari (hôs tanantia), ad esempio musico-non musico, caldo-freddo, armonico-disarmonico, ma dall'altro lato non è possibile parlare dei principi come contrari, perché non è possibile che i contrari subiscano azione reciproca (non è, ad esempio, il non-musico che diviene musico, ma il sostrato che da non-musico diviene musico): come si è già visto in Phys. I 6, 189a22 ss., questa condizione di impossibilità di azione reciproca tra i contrari può essere superata soltanto ponendo il sostrato come terzo principio oltre ai contrari e diverso dai contrari (touto gar ouk enantion - 190b34-35). «Sicché - dice Aristotele - in un certo senso i principi non sono in numero maggiore dei contrari, ma sono due quanto a numero, per così dire (190b35-36)», e tuttavia in senso assoluto non sono neppure due, ma tre, perché, nella fattispecie dell'esempio addotto da Aristotele, l'uomo in quanto sostrato ha due aspetti, uno privativo come non-musico e l'altro formale come musico, e quindi l'uomo non musico ha un'esistenza differente rispetto all'uomo musico.34 34 Questo passaggio ha bisogno di una precisazione: Aristotele dice letteralmente dei contrari che sono due di numero, ma adduce come ragione del fatto che in verità i principi non sono in modo assoluto due (bensì tre) il fatto che il loro essere ha esistenza differente ( out' au pantelôs duo dia to heteron huparchein to einai autois, alla treis - 190b36-191a1). Questo dovrebbe significare, a mio avviso, che l'essere della forma ha esistenza differente dall'essere della privazione, perché l'uomo musico ha esistenza differente rispetto all'uomo non musico, in quanto l'uno esiste come essere mentre all'altro si può semmai riconoscere esistenza come non essere. Dopo l'espressione alla treis, però, Aristotele riprende a parlare di differenza, usando un esplicativo gar, ma distinguendo stavolta l'essere del sostrato da quello della privazione, per cui qualche interprete, come ad esempio P. Pellegrin, Aristote. Physique, Paris 2000, p. 106 nota 2, intende, sulla base degli esempi, che anche prima Aristotele intendeva distinguere appunto l'essere del sostrato da quello della privazione. E tuttavia, quando Aristotele ha detto to einai autois sta parlando chiaramente dei contrari! A me sembra che nel primo caso Aristotele si riferisca ai contrari e che tuttavia, in quanto sta parlando di un diverso modo di esistenza ( huparchein) dell'essere di ciascuno, non intenda semplicemente il musico e il non musico, bensì l'uomo musico e l'uomo non musico, per cui occorre ammettere che i principi sono tre. Quando poi alla li. 191a1 aggiunge heteron gar, allora intende distinguere, diversamente da quanto ha fatto prima, l'essere del sostrato da quello della privazione. È necessario, quindi, considerare quale terzo principio il sostrato, il cui essere è a sua volta diverso rispetto all'essere della privazione. Ma se è vero che, sulla base di questo discorso, i due principi che devono essere considerati, affinché vi sia divenire degli enti naturali, sono principalmente i contrari, è vero anche che, dopo aver ribadito che è necessario che ci sia qualcosa che soggiace ai contrari e che questi ultimi siano due (191a4-5), Aristotele aggiunge che sotto un altro profilo non è necessario (oux anankaion) assumere quale condizione principale quella secondo cui occorrono i due contrari come principi, perché si può dire che è sufficiente che uno dei contrari produca il mutamento con la propria assenza o con la propria presenza.35 35 Lo stesso concetto è ribadito in Phys. II 3, 19511-14 e Meta. V 2, 1013b12-16. È evidente che si tratta di una considerazione di ordine razionale, perché riduce i contrari alla sola proprietà che si manifesta nel doppio modo dell'assenza e della presenza. Ora, per quanto concerne la prima parte del discorso, Aristotele insiste sul fatto che il divenire riguarda i contrari, perché è passaggio dal non essere all'essere, e perciò passaggio dalla privazione come non essere della forma alla forma stessa, come si è visto già in Meta. VII 7, dove Aristotele sostiene che più comunemente (mallon) si dice che le cose divengono dalla privazione (ek tês sterêseôs), perché è la privazione il non essere da cui si genera l'essere. Sotto questo profilo i contrari sembrerebbero avere una sorta di preminenza come principi rispetto al sostrato. Nella seconda parte del discorso, al contrario, privazione e forma sono piuttosto ridotte a unità, nella misura in cui la privazione altro non è che assenza della stessa forma, per cui la duplicità dei principi appare come una composizione della forma, nella doppia modalità dell'assenza e della presenza, con il sostrato. Ma tutto ciò fa comprendere precisamente come il sostrato, per potere essere considerato tale, non può mai essere considerato come separato dalla forma, come dire che un ente, da una parte è ciò che è, dall'altra parte, invece, qualora venga considerato come sostrato di un determinato processo di divenire, deve essere pensato come formalmente duplice, nel senso che esso non è separato da una privazione di forma, cioè dalla sterêsis come principio diverso, dal momento che è precisamente questa privazione di forma che rende "questo ente qui" sostrato del suo processo di divenire.

A questo punto Aristotele torna a utilizzare il termine phusis in rapporto a tutto quanto il suo discorso sui principi del divenire e, nella fattispecie, in rapporto alla sua propria nozione di hupokeimenon: «la natura soggiacente, dice Aristotele, è conoscibile per analogia (hê de hupokeimenê phusis kat' analogian - 191a7-8). Il problema dello Stagirita è qui ancora quello di far comprendere la vera natura del sostrato, che però egli chiama adesso "natura soggiacente". Dire che la natura soggiacente può essere conosciuta solo per analogia significa qui che essa può essere identificata in rapporto alla sostanza, ovverosia a una cosa determinata, che è tale perché costituita dal sostrato stesso unito a una specifica forma. La nozione epistemologica di analogia ha in Aristotele, a livello logico-dialettico, la medesima funzione che essa ha in matematica: si tratta di un tipo di "proporzionalità" ben preciso, perché stabilisce uguaglianza di rapporto fra coppie di termini,36 36 Sull'utilizzo dell'analogia in questo contesto della Fisica cf. K.C. Cook, The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter cit. Più in generale, sull'analogia matematica e sulla sua utilizzazione in ambito filosofico da parte sia di Platone che di Aristotele si vd. Th. Heath, A History of Greek Mathematics, Oxford 1921; A. Szabò, L'aube des mathématiques grecques, Paris 2000. Per quanto concerne l'analogia quale modello ermeneutico nell'antichità si vd. G.R. Lloyd, Polarità ed analogia. Due modi di argomentazione nel pensiero greco classico, Napoli 1992 (trad it. dell'originale del 1962). nel senso che, se ci è nota la relazione della coppia di termini che costituisce uno dei due rapporti, possiamo identificare il termine dell'altro rapporto che non ci è noto. L'esempio che fa Aristotele per farci comprendere che cosa sia la natura soggiacente è il seguente: come il bronzo sta alla statua, come il legno sta al letto e come la materia, ovvero ciò che è amorfo prima di assumere la forma, sta al correlativo che ha forma - cioè, in breve, come la materia priva di forma sta alla materia già formata -,37 37 Sul carattere analogico della dimostrazione di materia cf. J. Owens, The Aristotelian Argument of the Material Principle of Bodies, in I. Düring hrsg., Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast, Heidelberg, pp. 193-209, il quale, però, è un sostenitore della teoria della materia prima in Aristotele; cf. anche J. Owens, The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto 1951, p. 337. così sta la natura soggiacente alla sostanza intesa come ente determinato ovvero come ciò che è. In termini schematici l'analogia proposta da Aristotele in Phys. I 7, 191a8-12 sarebbe la seguente: hê hulê kai to amorphon : ti tôn echôntôn morphên (hulê+eidos) = hê hupokeimenê phusis: to tode ti kai to on (ousia). Come dire che il termine correlativo della natura soggiacente (hupokeimenê phusis) non è la pura forma, eidos, ma la sostanza individua, ousia.38 38 Questo è l'intero passo 191a7-12: hê de hupokeimenê phusis epistêtê kat' analogian. ôs gar pros andrianta chalkos ê pros klinên xulon ê pros tôn allôn ti tôn echontôn morphên [hê hulê kai] to amorphon echei prin labein tên morphên, houtôs hautê pros ousian echei kai to tode ti kai to on. Ritengo con Charlton che l'espressione hê hulê kai, eliminata da Diels seguito da Ross, vada integrata.

Gli esempi proposti da Aristotele riguardano enti prodotti dall'arte (la statua e il letto), cosa che anticipa quel rapporto analogico technê-phusis che nel II libro della Fisica è funzionale alla conoscenza della phusis nei suoi vari aspetti.39 39 Sul problema dell'analogia technê/phusis" in Aristotele sono ancora utili gli studi di H. Mayer, Natur und Kunst bei Aristoteles, Paderborn 1919, pp. 85 ss.; di M. Timpanaro Cardini, PHUSIS e TECHNÊ in Aristotele, in V.E. Alfieri e M. Untersteiner curr., Studi di filosofia greca, Bari 1950, pp. 279-305; di W. Theiler, Zur Geschichte der teologischen Naturbetrachtung bis auf Aristoteles, Berlin 1965 2; di K. Bartels, Der Begriff Techne bei Aristoteles, in Synousia. Festgabe für W. Schadewaldt, hrsg. von H. Flashar & K. Gaiser, Pfullingen 1965, pp. 275 ss.. Si vd. anche G.A. Ferrari, L'officina di Aristotele: natura e tecnica nel II libro della "Fisica", «Rivista critica di storia della filosofia», 32/2 (1977), pp. 144-173; A. Petit, «L'art imite la nature»: les fins de l'art et les fins de la nature, in Aristote et la notion de nature, éd. par P.M. Morel, Bordeaux 1997, pp. 35-43; e R.L. Cardullo, L'analogia technê-phusis e il finalismo universale in Aristotele Fisica II, in R.L. Cardullo e G.R. Giardina curr., La Fisica di Aristotele oggi. Problemi e prospettive, Catania 2005, pp. 51-109. Il rapporto del bronzo con la statua o del legno con il letto costituisce, infatti, un dato a noi familiare e noto ed è il punto di partenza per quel processo della conoscenza che, come si è visto, procede metodologicamente da ciò che è più noto per noi verso ciò che è più noto per natura: il rapporto fra la materia informe e l'oggetto formato, esemplificato da Aristotele come rapporto del bronzo con la statua o del legno con il letto, mostra con chiarezza che qui la natura soggiacente, se da un lato è di per se stessa un ente determinato, come lo sono il bronzo e il legno,40 40 Ritengo che con l'espressione hupokeimenê phusis Aristotele intenda indicare la sua propria nozione di sostrato, hupokeimenon, quale nozione diversa da quella dei fisiologi e di Platone, che hanno inteso il sostrato quale materia indeterminata, e penso che hupokeimenê phusis si riferisca anche al bronzo e al legno presenti nell'analogia, si riferisca cioè al sostrato di tutti gli enti che divengono, sia naturali che artificiali. Non sono quindi d'accordo con l'interpretazione di K.C. Cook, The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter cit., pp. 112 e 119, secondo la quale hupokeimenê phusis si dovrebbe intendere come materia fisica quale sostrato delle sole sostanze naturali. La hupokeimenê phusis è considerata indifferentemente in rapporto con enti artificiali ed enti naturali da W. Charlton Aristotle's Physics I, II cit., e da B. Jones, Aristotle's Introduction of Matter cit., e tuttavia entrambi non sembrano cogliere la differenza che sussiste fra la nozione aristotelica di hupokeimenê phusis e la nozione di hupokeimenon dei predecessori di Aristotele. Per Charlton la hupokeimenê phusis è infatti semplicemente il sostrato, per Jones invece è la materia, mentre ha ragione la Cook, p. 118, a far notare che Aristotele deve avere una ragione in virtù della quale parla di phusis soggiacente. La ragione non è però quella che ella propone, e cioè che la natura soggiacente, pur senza essere materia prima, è tuttavia il principio materiale delle sole sostanze naturali, per cui non si può parlare di hupokeimenê phusis nel caso del bronzo e del legno, bensì a mio avviso il fatto che Aristotele sta presentando una nozione nuova di sostrato, che è sì materia ma correlata ad una privazione di forma, e perciò diversa da ciò che i predecessori hanno in precedenza chiamato ora sostrato, hupokeimenon, e ora natura, phusis. Questo uso linguistico dei predecessori, che hanno individuato nella materia indeterminata il sostrato, hupokeimenon, e la natura, pusis, degli enti, giustifica il fatto che nel proporre la sua nozione di sostrato Aristotele la chiami natura soggiacente, hupokeimenê phusis, perché egli vuole opporre questa sua nozione al sostrato-natura di quelli. La prova che tutti gli esempi fatti nell'analogia valgano quale natura soggiacente mi sembra risulti facilmente dal fatto che, dopo aver citato il bronzo e il legno, Aristotele generalizzi i termini di questo primo gruppo dicendo to amorphon o, meglio ancora se si accetta l'integrazione nel testo dell'espressione espunta da Diels, hê hulê kai to amorphon, che indica che qualunque materia che è correlata con una privazione funge da hupokeimenê phusis. Che poi Aristotele faccia esempi tratti dal mondo artificiale, perché più facilmente conoscibili per noi, mentre il suo scopo è quello di chiarire il problema del sostrato degli enti naturali, più noto per natura, questo mi pare indiscutibile. deve tuttavia essere considerata quale fondamento materiale che assicura la permanenza dell'essere nel processo di passaggio dal non essere (privazione) all'essere (forma) di quello stesso ente, che, in quanto è coinvolto in un processo specifico, si configura come privo di una precisa forma, perché è in virtù del fatto che questo bronzo manca di questa forma di statua che esso può essere considerato sostrato di questa statua e non di un altro oggetto bronzeo, così come è in virtù del fatto che questo legno manca della forma di letto che esso può essere considerato sostrato di questo letto e non di un altro oggetto ligneo. Questo significato di phusis che soggiace, perciò, non si esaurisce in quello di materia, che implicherebbe una potenzialità molteplice e non consentirebbe, quindi, di correlare il bronzo soltanto alla statua o il legno soltanto al letto (esempi che invece Aristotele considera sufficienti a spiegare, come rapporti della prima parte dell'analogia, appunto che cosa sia questa phusis che soggiace), ma al contrario è intimamente legato alla sterêsis, tant'è che nel primo membro dell'analogia ciò che corrisponde a hê hupokeimenê phusis è una materia, hê hulê, che è anche to amorphon. La hupokeimenê phusis che è il sostrato è allora hulê+sterêsis, così come ciò con cui è in rapporto, come ad esempio la statua e il letto, è hulê+eidos.

È questa, dunque, la natura del sostrato aristotelico, hupokeimenon o hupokeimenê phusis, che non potendo ridursi alla sola materia è differente sia da tutti i principi materiali, unitari o molteplici, posti dai fisiologi precedenti ad Aristotele, sia dal principio materiale quale pura indeterminazione di cui parla Platone, per cui nel libro II della Fisica, là dove tratta della nozione di phusis, Aristotele (che si riferisce soprattutto al discorso di Antifonte, II 1, 193a13 ss.) ha modo di mostrare in che misura i fisiologi, collocando nella materia la natura delle cose naturali, hanno sì intuito un aspetto importante della questione - perché sotto un certo profilo la phusis è innegabilmente materia -, ma non hanno compreso che soprattutto la forma, eidos, è connotatrice della nozione di natura e degli enti naturali. Ma c'è di più: grazie a questa nozione di sostrato o natura che soggiace, Aristotele può mostrare in modo definitivo in che cosa hanno sbagliato gli Eleati, da una parte, e Platone e i Platonici, dall'altra. Prima però di passare a questa confutazione definitiva degli Eleati e dei Platonici, Aristotele conclude il capitolo Phys. I 7 in un tono che fa comprendere come egli ritenga che sia ormai chiaro e sufficiente ciò che ha detto sul numero e sulla natura dei principi del divenire: «questa <natura> [scil. la natura soggiacente conoscibile per analogia] - afferma Aristotele - è dunque un principio, che non è né uno né essere così come è <invece> l'ente determinato, un altro principio è quello di cui c'è la definizione [scil. la forma], e ancora un altro è il contrario di quest'ultimo, <cioè> la privazione (mia men oun archê hautê, ouch houtô mia ousa oude houtôs on hôs to tode ti, mia de hês ho logos, eti de to enantion toutô, hê sterêsis - 191a12-14)». Anche in questo passaggio Aristotele insiste sul duplice significato della sua nozione di sostrato, che è sì un principio unitario, ma che non ha unitarietà di natura e non coincide, quindi, con l'ente determinato, hôs to tode ti, per cui risulta chiaro che questa duplicità del sostrato consiste nel fatto che esso è insieme sia materia che privazione, materia in quanto potenzialmente capace di acquisire una forma determinata subendo un processo e divenire quindi un tovde ti, privazione in quanto a tale materia è associato per accidente un "non-essere" in rapporto all' "essere" che è l'eidos che si realizza nel processo del divenire come tode ti. In questa duplicità di essere e insieme non-essere, che Aristotele attribuisce al principio materiale del divenire, consiste appunto la sua capacità di svolgere la funzione di sostrato o natura-sostrato, nel senso che la materia o un ente è sostrato solo in virtù del fatto che esso è amorfo sotto il profilo di uno specifico processo, ovverosia nel senso che il suo essere amorfo è il carattere determinante che la privazione conferisce alla materia come sostrato, carattere che differenzia radicalmente il sostrato aristotelico dalla materia indeterminata quale sostrato di tutti i filosofi che lo hanno preceduto. Ed è per questo che Aristotele, dal momento che il sostrato appare duplice, come materia e come privazione, sente giustamente il bisogno di ribadire ancora una volta, rimandando anche a quanto ha detto a questo proposito precedentemente (190b29-191a3), che da un lato i principi sembrano essere due ma che in realtà sono tre. Se infatti Aristotele ha affermato dapprima che principi sono soltanto i contrari ma poi ha dovuto aggiungere di necessità il sostrato, per cui i principi risultano essere tre e non due, in virtù di quanto ha detto successivamente, e cioè precisamente a partire dal discorso secondo cui la hupokeimenê phusis è conoscibile per analogia, allora appare evidente come egli ritenga che sia ormai chiaro quale differenza intercorra fra i contrari (perché stererêsis e eidos sono i due aspetti della forma o morphê, e sono l'uno l'assenza e l'altro la presenza di una precisa determinazione formale),41 41 Alle li. 191a6-7, infatti, Aristotele scrive: « hikanon gar estai to heteron tôn enantiôn poiein tê apousia kai parousia tên metabolên» quale sia la relazione reciproca dei principi (perché la sterêsis associandosi alla materia le conferisce funzione sostratica dando luogo a uno specifico amorfo, laddove l'eidos insieme con la materia costituisce un tode ti), e che cosa sia il sostrato (e cioè una materia determinata che, essendo priva di una forma specifica, è atta ad assumere appunto tale specifica forma assicurando nel divenire la permanenza dell'essere).42 42 Vd. Phys. I 7, 191a15-19. Aristotele stabilisce così un legame strettissimo tra l'hupokeimenon - che corrisponde alla hupokeimenê phusis - e la morphê (nel senso sia positivo che privativo), ambedue convergenti nella costituzione di quella nozione che Aristotele indicherà come phusis nel senso di principio degli enti naturali.

4. Eleati e Platonici non hanno riconosciuto il vero carattere della hupokeimenê phusis: Phys. I 8-9

Sebbene risulti ormai chiaro quale sia il numero e la natura dei principi, Aristotele inserisce alla fine del settimo capitolo una questione che a suo modo di vedere non risulta ancora chiara, e cioè se sia sostanza la forma oppure il sostrato (póteron de ousia to eidos hê to hupokeimenon, oupô dêlon - 191a19-20). La domanda può apparire strana se si pensa che Aristotele fin qui si è impegnato a mostrare una certa equivalenza fra la nozione di sostrato e quella di sostanza, come si è visto soprattutto a proposito di Phys. I 6. E tuttavia essa si comprende sulla base del fatto che, come si è visto, il sostrato per Aristotele non è semplicemente la materia. Tutto ciò appare chiaramente da quanto Aristotele argomenta in Phys. I 8, capitolo in cui, una volta acquisita la sua propria teoria dei principi del divenire e, in modo particolare, la sua propria nozione di hupokeimenon o hupokeimenê phusis, si appresta a demolire definitivamente la teoria degli Eleati.

Gli Eleati, ricercando la verità e la natura degli enti (tên alêtheian kai tên phusin tôn ontôn - 191a25), deviarono, secondo Aristotele, dal retto cammino a causa della loro inesperienza (hupo apeirias). Alle li. 191a27-31 viene proposta una riformulazione di uno degli argomenti più caratteristici dell'eleatismo:43 43 Cf. Parmenide, fr. B 8, soprattutto li. 15-21 D.-K. costoro affermano - sostiene Aristotele - che nessuno degli enti nasce (houte gignesthai) né perisce (oute phtheiresthai), perché, se nasce, è necessario che nasca o dall'essere o dal non essere (ê ex ontos ê ek mê ontos) ed è impossibile sia l'una cosa che l'altra. Infatti, l'essere non nasce dall'essere, perché la conseguenza sarebbe che l'essere è già (einai gar êdê), e d'altra parte dal non essere non può nascere nessuna cosa, perché - osserva Aristotele44 44 Se si accetta la correzione di Bonitz, seguita da Ross, di dei in dein, si ottiene che l'intera espressione hupokeisthai gar ti dein viene fatta dipendere da phasin e quindi attribuita agli Eleati. Tuttavia questa è la tesi di Aristotele, che ha fin qui insistito sulla necessità di porre come terzo principio il sostrato, per cui penso che la correzione non sia necessaria. - ci deve essere qualcosa che funge da sostrato (hupokeisthai gar ti dei). Già da questa osservazione si arguisce che Aristotele intende risolvere il problema che gli Eleati pongono alla realtà del divenire precisamente tramite la sua propria nozione di hupokeimenon.45 45 Di questo aspetto del problema si è occupato M.J. Loux, Aristotle and Parmenides: An Interpretation of Physics A.8, «Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy», 8 (1992), pp. 320-326. Loux pone la sua attenzione su quello che egli chiama modello predicazionale del rapporto materia-forma, secondo cui la nozione di materia del divenire individua qualcosa che esiste prima del divenire e che è soggetto di predicazione della forma in cui culmina il divenire stesso. La materia costitutiva dell'ente che è divenuto in atto e la materia che è per se stessa soggetto del divenire sono, secondo Loux, la medesima cosa, e la materia ha un'identità indipendente dalla forma che si predica di essa per accidente (cf. anche M.J. Loux, Composition and Unity: An Examination of Metaphysics H 6, in M. Sim (ed. by), The Crossroad of Norm and Nature. Essays on Aristotle's Ethics and Metaphysics, Boston-Lanham 1995, soprattutto pp. 261-265). Questa proposta ermeneutica, secondo cui è la stessa la materia di ciò che diviene e di ciò che è divenuto, mi pare si adatti bene ai casi del divenire che non sia un divenire della sostanza, ma non si comprende come possa essere la stessa la materia funzionale (nel caso del sostrato del divenire) e la materia costitutiva (quella cioè della sostanza naturale) nel caso in cui, quando avviene una generazione in senso assoluto, muta sia la forma sia la materia, come sostiene Aristotele. Più che un problema di identità (di materia o di sostrato), a me sembra che Aristotele ponga un problema di persistenza o permanenza del sostrato quale soggetto di predicazione. È sempre necessario, per Aristotele, che ci sia un soggetto di predicazione di una forma concepita nella doppia modalità dell'assenza e della presenza, e tale doppia modalità della forma comporta una doppia funzionalità della materia: una materia correlata a una privazione di forma è sostrato del divenire naturale, perché è accidentalmente non essere e perciò non è più solo materia, ma materia funzionale a un preciso processo di divenire; una materia correlata a una forma è sostrato di una sostanza naturale e perciò è materia costitutiva di tale sostanza. Questo significa che la nozione di sostrato non è mai esaurito dalla nozione di materia. In conseguenza del loro ragionamento, gli Eleati affermano che i molti non esistono e che esiste soltanto l'essere in quanto tale, ma per Aristotele questa è la conseguenza del fatto che gli antichi non hanno compreso che oltre ai due principi fra loro contrari deve esistere un terzo principio che è appunto il sostrato, l'hupokeimenon. Riassumendo l'argomentazione aristotelica è possibile vedere come lo Stagirita recuperi in I 8 la parziale equivalenza delle due formule con cui è possibile dire il divenire, ossia il modo secondo cui "qualcosa diviene qualcosa" e il modo secondo cui "da qualcosa diviene qualcosa". Ecco l'esempio che propone Aristotele: il medico può costruire una casa non in quanto medico (ouch hê iatros), ma in quanto costruttore (all' hê oikodomos), e può divenire bianco non in quanto medico (ouch hê iatros), ma in quanto nero (all' hê melas), invece cura o diviene incapace di curare in quanto medico (hê iatros); tuttavia noi parliamo in modo del tutto appropriato secondo entrambi i modi in cui possiamo dire il divenire - cioè sia quando diciamo il divenire secondo la formula "qualcosa diviene qualcosa" sia quando lo diciamo secondo la formula "qualcosa diviene da qualcosa" - quando consideriamo che il medico agisce, subisce o diviene in quanto medico (hê iatros - 191b8, quindi, ad esempio, quando guarisce), per cui «è chiaro - dice Aristotele - che anche il divenire "dal non essere" significa questo <cioè> che <una cosa diviene> "in quanto non è" (dêlon hoti kai to ek mê ontos gignesthai touto sêmainei, to hê mê on - 191b9-10)». Ogni processo di divenire, in altre parole, è governato dalla forma che determina il processo stesso, e gli Eleati, secondo Aristotele, sbagliano, perché concepiscono soltanto il non essere in senso assoluto e non hanno compreso che invece occorre porre all'inizio dei processi di divenire il non essere per accidente, che è precisamente il sostrato in quanto materia privativa. Infatti le cose si generano dalla privazione, che per sé è non essere (ek gar tês sterêseôs, ho esti kath' hauto mê on - 191b15-16), ma per accidente è presente in qualcosa che per sé esiste ed è positivamente determinato. Questo qualcosa che esiste ed è positivamente determinato è, propriamente parlando, l'ente che, insieme con la privazione, si fa sostrato di un singolo processo di divenire. In questo modo Aristotele non elimina affatto il principio eleatico secondo cui ogni cosa o è o non è, ma indica una strada che rende possibile il divenire e la molteplicità delle cose, perché fonda la possibilità di un divenire che ha come punto di partenza il non essere nella forma specifica della privazione che appartiene all'essere di ciò che è, per cui il sostrato è ciò che non è non in senso assoluto, nel modo cioè in cui lo concepivano gli Eleati, ma nel senso aristotelico di "in quanto non è", sicché la formula del divenire, considerata giustamente assurda dagli Eleati, ek mê eontos viene soppiantata in Aristotele dalla formula to hê mê on, cosa a cui gli Eleati non avevano pensato. È a causa di questa incomprensione che gli Eleati si sono allontanati dalla strada che conduce alla generazione, alla corruzione e in generale al mutamento, afferma Aristotele: «Infatti la natura intesa in questo senso [scil. nel senso cioè che le attribuisce Aristotele] - avverte lo Stagirita - avrebbe potuto dissipare del tutto la loro ignoranza (hautê gar an ophtheisa hê phusis hapasan elusen autôn tên agnoian)».46 46 Phys. I 8, 191b33-34. Scil. l'ignoranza riguardo alla generazione, alla corruzione e in generale al mutamento. La phusis che gli Eleati hanno inteso in maniera non appropriata, per cui sono incorsi in errore, è appunto la "natura soggiacente" di cui parla Aristotele,47 47 Così anche W.D. Ross, Aristotle's Physics cit., p. 497. essi cioè non hanno saputo cogliere il vero carattere del sostrato quale principio del divenire così come lo ha mostrato Aristotele in questo libro I della Fisica, sostrato che non si presenta semplicemente come materia, bensì piuttosto come principio che rende possibile il divenire in quanto "attivato", per così dire, dalla forma che ad esso si accompagna nella sua modalità privativa. La privazione, infatti, come si comprende ancor meglio dalla lettura di Phys. I 9, è sì non essere, ma appartiene al sostrato, e quindi è, in quanto suo accidente; il sostrato è, quindi, non essere accidentalmente,48 48 Cf. Phys. I 9, 192a3-5. così come il medico che costruisce è non medico accidentalmente, per il fatto che il processo in cui è coinvolto non è quello di curare ma quello di costruire.

In Phys. I 9 si legge che anche Platone e i Platonici49 49 Aristotele dice genericamente heteroi tines, ma che si tratti dei Platonici appare chiaramente a partire dalla li. 192a6. si sono applicati allo studio della phusis, e tuttavia non l'hanno colta sufficientemente. Essi, afferma Aristotele, concordano semplicemente50 50 P. Pellegrin accorda haplôs con homologousin anziché con ginesthai, come fanno la maggior parte dei traduttori. Di certo qui haplôs non indica la generazione in senso assoluto, ma semplicemente il fatto che il divenire ha come punto di partenza in ogni caso il non essere. con Parmenide sul fatto che il divenire avviene a partire dal non essere, in quanto Parmenide avrebbe ragione a dire questo,51 51 In effetti Parmenide, come lo stesso Aristotele ha già detto prima, negava tout court che ci sia divenire. Tuttavia qui Aristotele potrebbe voler dire che, in quanto il divenire dell'essere dall'essere rimanda sempre all'essere (da cui diviene), porre che l'essere diviene dall'essere è una banalità che comporta un rimando all'infinito all'essere prima dell'essere che non spiega la nascita dell'essere. La conseguenza di questo ragionamento, necessariamente valida anche per Parmenide, è che se il divenire fosse possibile, occorrerebbe porre che l'essere diviene dal non essere. epperò sembra loro che, se è vero che tale natura è numericamente una, essa è soltanto una anche in potenza (eiper estin arithmô mia, kai dunamei mia monon einai - 192a2). Queste due condizioni però, e cioè l'unicità numerica e l'unicità potenziale della hupokeimenê phusis", secondo Aristotele, differiscono grandemente (touto de diapherei pleiston - 192a2-3). Qui, come ha già intuito il Ross nella sua traduzione della Fisica aristotelica del 1936, l'unicità per potenza che i Platonici riconoscerebbero alla natura soggiacente e che Aristotele, al contrario, nega, si ricondurrebbe al discorso che lo Stagirita ha fatto in I 7, 190a16-17 e b24, a proposito dell'hupokeimenon, per cui dire che la natura soggiacente è una per potenza equivarrebbe a dire che essa è una per forma o per definizione, mentre si è visto che per Aristotele essa è numericamente una, ma formalmente duplice. Infatti, alle li. 192a3 ss. di I 9 Aristotele spiega la differenza che egli riconosce alle due condizioni sopraindicate (unicità di numero e unicità di potenza): la materia e la privazione sono principi differenti, e mentre la materia è non essere per accidente (kata sumbebêkos), la privazione è non essere per sé (kath' hautên), e mentre la materia è prossima alla sostanza ed è in certo qual modo sostanza (engus kai ousian pôs) - verosimilmente perché è essere sia in quanto è per se stessa un ente sia in quanto è sì materia, ma in rapporto alla forma che acquisirà nel processo di divenire, come indica l'analogia delle li. 191a1-12 -, al contrario la privazione non è sostanza in alcun modo (oudamôs), verosimilmente perché essa è in modo assoluto non essere. I Platonici, invece, hanno considerato non essere sia il Grande sia il Piccolo e questo indifferentemente, sia che li si consideri insieme oppure l'uno come separato dall'altro, sicché - afferma giustamente Aristotele - il suo proprio modo di concepire la triade dei principi è completamente diverso dal modo platonico, perché i Platonici sono giunti fino a comprendere che è necessario che ci sia una natura che soggiace al divenire e tuttavia hanno posto tale natura come una (dei tina hupokeisthai phusin, tautên mentoi mian poiousin - 192a10-11), perché se anche si pone tale natura come duplice, chiamandola Grande e Piccolo, nondimeno si pone una stessa e identica cosa, perché costoro non hanno individuato l'altra natura che appartiene alla materia affinché questa sia sostrato, cioè la privazione.52 52 Qui heteran al femminile riprende hupokeimenê phusis indicando un aspetto di tale natura che soggiace. È evidente, in tutta questa argomentazione di Aristotele sulla posizione dei Platonici, che l'errore di costoro, che pure hanno individuato la necessità della hupokeimenê phusis quale principio del divenire, è stato quello di aver concepito tale principio unicamente quale principio materiale, e quindi quale principio indeterminato, mentre al contrario per Aristotele il sostrato, per essere tale, dev'essere una composizione di materia e privazione, e perciò determinato perché in rapporto a un preciso processo. Sta in questo la duplicità del sostrato, cioè nel fatto che deve sempre essere visto come ente in connessione con la privazione, cosa che i Platonici non hanno saputo afferrare, attribuendo ad esso una unicità anche di potenza oltre che di numero, per cui il sostrato dei Platonici, pur apparendo a prima vista duplice, e cioè da una parte il Grande e dall'altra parte il Piccolo, al contrario è soltanto un principio materiale unitario alla stessa stregua di quello di altri filosofi materialisti.

Alle li. 192a13 ss. Aristotele ribadisce che la natura che permane, cioè il sostrato, è concausa insieme con la forma delle cose che divengono, come fosse una madre53 53 Come ha segnalato W. Charlton ( Aristotle's Physics I, II cit., pp. 82-83), in tutto questo passaggio Aristotele riprende il linguaggio di Plat. Timeo 49-53. (hê men gar hupomenousa sunaitia tê morphê tôn gignomenon estin, hôsper mêtêr), sottolineando così l'originalità della sua posizione filosofica secondo cui la materia non è un contrario della forma ma è sempre correlata alla forma; egli mette in luce altresì il difetto più rilevante della concezione platonica dei principi: per i Platonici un contrario tende verso l'altro contrario, con la conseguenza che ciascun contrario tende verso la propria distruzione. È questa la ragione per la quale Aristotele, al fine di evitare che i contrari si distruggano l'un l'altro, ritiene che non sia il contrario che tende verso il suo contrario, bensì la materia che tende alla forma, come se fosse la femmina che tende al maschio o il brutto che tende al bello, salvo che la materia non è né il brutto né la femmina se non per accidente, cioè in quanto ad essa si associa un'assenza specifica, ovverosia la privazione di forma.54 54 Vd. Phys. I 9, 192a14-25.

Un po' più avanti, alle li. 192a25-29, Aristotele aggiunge una precisazione, al fine di far meglio comprendere come il suo modello triadico dei principi del divenire sia valido per ogni tipo di generazione (peri pasês geneseôs, come aveva annunciato alla li. 189b30): la materia, in effetti - dice Aristotele -, in un senso è come se perisse e si generasse, in un altro senso no (phtheiretai de kai gignetai esti men ôs, esti d' hôs ou), perché se è considerata come ciò in cui risiede la privazione essa perisce per se stessa - come dire che in questo senso perisce l'uomo non musico una volta che sia divenuto uomo musico - mentre se è considerata secondo la potenza (kata tên dunamin) essa non perisce per se stessa ed è anzi necessario che non perisca né si generi - come dire che in quest'altro senso perisce il non-musico, una volta che l'uomo sia divenuto musico, ed è necessario che l'uomo non perisca né si generi, ma al contrario permanga. Se infatti la materia si fosse generata, aggiunge Aristotele, occorrerebbe che le soggiacesse un sostrato primo dal quale, come suo costituente interno, essa si sarebbe generata (hupokeisthai ti dei prôton ex hou enuparchontos); ma questo sostrato primo è appunto la natura soggiacente, per cui essa esisterà prima di generarsi (touto d'estin autê hê phusis, hôst' estai prin genesthai), «perché, spiega Aristotele, per materia io intendo il sostrato primo che in ciascuna cosa è ciò da cui, come suo costituente interno, essa si genera in modo non accidentale (legô gar hulên to prôton hupokeimenon hekastô, ex hou gignetai ti enuparchontos mê kata sumbebêkos)». Se poi la materia perisce, allora essa giungerà da ultimo a quel sostrato primo, in modo che sarà perita prima ancora di essere perita (eite phtheiretai, eis touto aphixetai eschaton, hôste ephtharmenê estai prin phtharênai), analogamente a quanto accadeva se la si considerava sotto il profilo della generazione.

Con questo discorso Aristotele chiude il cerchio dell'argomentazione condotta in Phys. I e al contempo prepara la discussione della nozione di phusis che occupa i primi due capitoli del libro II. Infatti, i principi di cui egli dispone per fondare la sua scienza della natura sono da un lato la materia e dall'altro la forma. In questo senso egli non inventa nulla di nuovo rispetto ai suoi predecessori, che avevano posto tutti unanimemente uno o più principi materiali della realtà sensibile, mentre altri avevano posto accanto al principio materiale anche principi di natura formale. Ma la materia e la forma sono sufficienti a dirci quale sia la natura delle cose, ma non sono sufficienti a spiegare il modo in cui le cose divengono. È per questo che il modello platonico della triade dei principi non è idoneo, agli occhi di Aristotele, a spiegare il divenire del mondo naturale, in quanto di fatto si riduce a una dualità di principi, cioè soltanto a materia e forma. Al contrario, Aristotele inaugura una dialettica triadica dei principi in cui la materia è sempre correlata alla forma, vista, quest'ultima, sotto una modalità duplice, cioè come assenza e come presenza. La natura soggiacente di cui parla Aristotele è, quindi, un principio composto che nessuno dei predecessori ha saputo individuare sufficientemente, perché se anche i Platonici si sono resi conto che nel divenire dall'essere al non essere è necessario che ci sia permanenza di essere, costoro non hanno saputo individuare la natura composita del sostrato, in cui l'essere della materia e il non essere della forma nella sua modalità privativa danno vita a un ente che "tende" ad assumere un nuovo status, assicurando al divenire il mutamento insieme con la permanenza dell'essere. Tutto il discorso finale di Phys. I 9 prepara però la ricerca sulla nozione di phusis del libro II nella misura in cui, come dicevo, se il sostrato aristotelico è un concetto nuovo e originale nella sua composizione e duplicità formale, tuttavia ciò di cui Aristotele concretamente dispone sono gli enti, composti sì di forma, ma anche di una materia, la quale, presa per sé, equivale al principio che anche i predecessori avevano individuato quale sostrato e natura.

5. Epilogo: la hupokeimenê phusis di Phys. I e la phusis di Phys. II 1

Il discorso che in Phys. I Aristotele ha fatto sulla hupokeimenê phusis quale sostrato è utile, come dicevo, al fine di comprendere quanto egli si appresta a dire sulla nozione di phusis in Phys. II 1, per il fatto che, come si è visto, Aristotele ha formulato una nozione di sostrato che corrisponde a quella di un ente che, in quanto è assunto quale sostrato di un processo di divenire, ad esempio un uomo che diviene musico da non musico, si presenta come materia unita a una privazione determinata dalla forma, in atto assente, che l'ente acquisirà in quel preciso processo di divenire. Nel riconoscere una duplicità formale al sostrato come diveniente - perché è in virtù di questa duplicità, cioè del fatto che è correlato a una privazione di forma, che l'ente assume appunto la funzione di sostrato -, Aristotele, come si è anche detto, non solo parte dall'analisi dei filosofi che lo hanno preceduto e che, avendo riconosciuto anch'essi la necessità di un sostrato del divenire, hanno tutti posto quale sostrato un principio materiale indeterminato, sia esso unico o molteplice, ma al contempo non può non tenere costantemente conto del fatto che l'ente che funge da sostrato ha comunque fra i suoi caratteri quello di essere materia del divenire, come l'uomo che diviene musico, o il legno che diviene letto, o il bronzo che diviene statua, che sono di per sé enti quali sostanze composte di materia e forma, ma che in funzione del divenire vanno considerati rispettivamente non in quanto enti, cioè in quanto uomo, legno o bronzo, ma in quanto materia del musico, del letto o della statua. La rilevanza del carattere di materia della hupokeimenê phusis di Phys. I, carattere riconosciuto dai fisiologi quale proprietà unica del sostrato e della natura degli enti naturali, fa sì che la questione fin qui dibattuta si riproponga anche in Phys. II 1, dove Aristotele stabilisce in modo più peculiare la sua nozione di phusis.

In Phys. II 1 Aristotele inizia la sua indagine, finalizzata a definire e spiegare la nozione di phusis, partendo dagli enti naturali, ta phusei onta, secondo quel procedimento metodologico, già da lui prestabilito, che parte da ciò che è più noto per noi, poiché appunto in questo caso sono per noi maggiormente noti gli enti della natura, per approdare a ciò che è più noto per sé, come in questo caso il concetto di phusis. La natura appare sin dalle prime linee di Phys. II 1 quale principio, interno agli enti naturali, di movimento e di quiete (192b13-14), ovvero quale impulso connaturato di mutamento (hormên metabolês emphuton - 192b18-19), «essendo la natura - scrive testualmente Arsistotele - un principio e una causa del muoversi e dello stare fermo di ciò in cui esiste primariamente per se stessa e non per accidente (ousês tês phuseôs archês tinos kai aitias tou kineisthai kai êremein en hô huparchei prôtôs kath' hauto kai mê kata sumbebêkos - 192b21-23)», oppure come principio interno di produzione nei casi di quegli enti artificiali (tôn poioumenôn) che, pur non avendo in se stessi il principio della loro produzione (ouden gar autôn echei tên archên en heautô tês poiêseôs), potrebbero per accidente divenire causa per se stessi (kata sumbebêkos aitia genoit' an hautois - 192b27-32). Con queste espressioni, tutte vòlte a spiegare il carattere della natura, Aristotele ritiene di aver detto appunto che cosa sia la phusis (phusis men oun esti to rhêthen - afferma infatti alla li. 192b32) e dedica la prosecuzione del suo discorso agli enti naturali, che sono precisamente quelli che hanno la natura come principio, formulando un'affermazione che, a mio modo di vedere, non è stata fin qui interpretata adeguatamente.55 55 Per un'argomentazione più dettagliata relativa all'interpretazione delle li. 192b33-34, cf. G.R. Giardina, I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 67-74.

Troviamo questa affermazione di Aristotele alle li. 192b33-34: kai estin panta tauta ousia. hupokeimenon gar ti, kai en hupokeimenô estin hê phusis aei. La frase qui riportata secondo l'edizione Ross segue la punteggiatura proposta dal Laas,56 56 E. Laas, Aristotelische Textes-Studien, in Jahresbericht Friedrichs-Gymnasium und Realschule, Berlin 1863. il quale, basandosi sulla interpretazione di Temistio e di Filopono di questo passaggio aristotelico, ha collocato una virgola dopo il ti affinché l'espressione hupokeimenon gar ti andasse letta in stretto rapporto con la precedente, cioè kai estin panta tauta ousia, nel senso che hupokeimenon gar ti avrebbe come soggetto logico ousia, e non il soggetto seguente, phusis. A. Mansion57 57 A. Mansion, Introduction à la Physique aristotélicienne, Paris-Louvain 1945, p. 100 nota 15. ha proposto addirittura di collocare dopo il ti una pausa più forte, il punto e virgola anziché la virgola, perché ha inteso il senso di questa frase in un modo che è stato in seguito comunemente seguito dai traduttori moderni di Aristotele, secondo il quale «tutte queste cose sono sostanza: perché sono un certo sostrato, e la natura è sempre in un sostrato».58 58 Carteron non segue la punteggiatura proposta da Laas e tuttavia non si discosta dagli altri interpreti per il senso che attribuisce alla frase. In breve, la ragione del fatto che gli enti naturali sono sostanza (ousia) sarebbe qui individuata con il loro essere sostrato. Tale interpretazione effettivamente collima con quella che si ricava dalla parafrasi di Temistio, In Phys. 36,24-37,2 e dal commento di Filopono, In Phys. 204,16-23. Temistio spiega infatti l'espressione aristotelica «e tutte queste cose sono sostanza» dicendo che sono composte da materia e da forma (sunthenta gar êdê ex hulês kai eidous estin) e prosegue dicendo che la natura "ha" (echei) un certo sostrato ed "è" (estin) in un sostrato, attribuendo l'essere sostrato non alla natura, ma all'ente naturale che ha natura. Filopono, a sua volta, per spiegare che gli enti naturali sono "sostanze", afferma che ciascuno di tali enti è un sostrato e che nessuno degli accidenti è sostrato, ma lo è appunto soltanto la sostanza. Il ragionamento di Filopono è semplice e lineare: se la natura è in un sostrato, allora ciò che ha natura funge da sostrato; ma il sostrato è sostanza, quindi ciò che ha natura è sostanza; inoltre, che la natura sia in un sostrato è mostrato dalla stessa definizione di natura, che afferma che essa è principio di movimento o di quiete di ciò "in cui" (en hô) esiste primariamente per se stessa.

Ora, a me sembra che attribuire ad Aristotele la spiegazione che gli enti naturali sono sostanza perché ogni ente naturale è un certo sostrato significa attribuirgli un'affermazione che non ha rilevanza teoretica e che risulta carente di legittimità in questo contesto argomentativo. In effetti, gli stessi Commentatori antichi hanno trovato difficoltà a chiarire il significato di questo passaggio aristotelico, anche in relazione al fatto che Aristotele parla, a proposito degli enti naturali, di sostanza al singolare e non di sostanze al plurale. Filopono, In Phys. 204,14-15, ad esempio, cita Aristotele scrivendo che «tutte queste cose sono "sostanze" (eisi tauta panta ousiai)», e Simplicio, In Phys. 270,11 ipotizza anche lui che Aristotele abbia usato il singolare al posto del plurale. Tuttavia, a differenza di quanto si è visto in Temistio e Filopono, in Simplicio si profila la possibilità di interpretare l'espressione aristotelica: "tutte queste cose sono sostanze", considerando come spiegazione la frase "hupokeimenon gar ti kai en hupokeimenô estin hê phusis aei" in cui hê phusis è inteso come soggetto sia di hupokeimenon ti che di en hupokeimenô. Prendendo spunto da Simplicio, pur se in disaccordo con l'opportunità di intendere oujsiva come oujsivai, Couloubaritsis, seguito in questa sua interpretazione da A. Stevens,59 59 Cf. L. Couloubaritsis, Aristote. Sur la nature (Physique II), Introduction, traduction et commentaire par L. C., Paris 1991; A. Stevens (trad. par), Aristote. La Physique, Introd. par L. Couloubaritsis, Paris 1999. Entrambi traducono ousia con "essenza". Io ritengo che la lezione oujsiva sia corretta, come ho cercato di chiarire in G.R. Giardina, I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 289-290. intende il passo aristotelico in questo secondo modo che a me sembra corretto, e cioè nel senso appunto che l'intera espressione "hupokeimenon gar ti kai en hupokeimenô estin hê phusis aei" costituisce la spiegazione del fatto che «tutte queste cose sono sostanza», per cui la frase di Aristotele significherebbe: «e tutte queste cose sono sostanza: infatti sempre la natura è un certo sostrato ed è in un sostrato». Per quanto, infatti, a prima vista possa apparire bizzarro affermare che la natura è al contempo un sostrato e in un sostrato, a me sembra, al contrario, che questa affermazione sia in linea con quanto Aristotele ha argomentato sulla hupokeimenê phusis nel libro I, nonché con quanto si appresta ad argomentare nel seguito di Phys. II 1, in cui la phusis viene presentata nel doppio significato di materia e di forma. L'affermazione che la natura sia al contempo sostrato e in un sostrato fungerebbe così adeguatamente da spiegazione del fatto che, come Aristotele ha appena affermato, gli enti naturali sono sostanza, perché sostanza nel caso degli enti naturali è, come hanno spiegato Temistio e Filopono, l'ente naturale quale composto di materia e di forma, ed entrambi questi aspetti, la materia e la forma, sono phusis. Ma l'identificazione della phusis con il sostrato e insieme con la materia continua a porre ad Aristotele, evidentemente, il problema dell'identificazione tout court della materia con il sostrato.

È lo stesso Simplicio, d'altra parte, che mostrando la difficoltà di comprendere queste linee di Aristotele, fornisce la possibilità di intenderle nel senso che in effetti, secondo Aristotele, la natura è un sostrato ed è in un sostrato. In In Phys. 269,27-270,22, infatti, egli dapprima presenta il discorso di Aristotele identificando correttamente le cose che sono sostanza, di cui parla Aristotele, con gli enti naturali, spiegando poi che sono sostanza composta da un certo sostrato e dalla natura che è in esso. Anticipando poco dopo quanto Aristotele dirà alle li. 192b9 ss. a proposito della natura intesa come materia o come forma, Simplicio riflette sul fatto che, essendo l'ente naturale composto (sunthetou ontos tou phusikou), alcuni dicono che il sostrato è la natura, da cui nascono le cose che divengono come da qualcosa di immanente (tinas men to hupokeimenon legein tên phusin ex hou ginetai ta ginomena enuparchontos), mentre altri dicono che <la natura> è la forma specifica (tinas de to eidos), e che Aristotele si porrebbe come arbitro fra ambedue questi ragionamenti. In questa prima possibilità di interpretazione che Simplicio fornisce, egli si colloca sostanzialmente in linea con Temistio e Filopono, perché considera l'ente naturale come una sostanza composta dal sostrato, che sarebbe la materia, e dalla natura che è in esso e che sarebbe la forma. Sia il sostrato sia la forma, osserva Simplicio, sono sostanza, e tuttavia sostanza in senso più proprio si deve intendere il sostrato insieme con la forma, per cui le cose che hanno natura, cioè gli enti naturali sono "sostanze". Simplicio tende infatti a correggere ousia in ousiai. Egli, però, continua a riflettere sulla frase di Aristotele sempre interessato principalmente al problema del singolare o del plurale di oujsiva, dicendo quanto segue: «Oppure <Aristotele>, dicendo che "tutte queste cose sono sostanze", cioè sia il sostrato sia ciò che è in un sostrato (eisi panta tauta ousiai, toutesti to te hupokeimenon kai to en hupokeimenô), mostra ciò per mezzo della natura (dia mesês tês phuseôs), dicendo che "sempre la natura è un certo sostrato ed è in un sostrato" (hê phusis hupokeimenon ti kai en hupokeimenô esti aei). Se dunque la natura è sostanza e il sostrato è natura e ciò che è in un sostrato è natura, cioè la materia e la forma specifica, allora tutte queste cose sarebbero sostanza (ei oun hê phusis ousia, to de hupokeimenon phusis kai to en hupokeimenô phusis, toutestin hê hulê kai to eidos, ousia an eien tauta panta). E sembra che a questa nozione <di natura-sostanza> si accordi anche ciò che viene ricercato poco dopo, cioè se la natura è la materia ovvero il sostrato oppure è la forma specifica ovvero ciò che è in un sostrato (kai taute dokei tê ennoia suvadein kai to met' oligon zêtoumenon, poteron hê hulê kai to hupokeimenon estin hê phusis ê to eidos kai to en hupokeimenô) - 270,11-17». Simplicio, come si vede, non ha difficoltà a identificare la natura sia con il sostrato sia con ciò che è nel sostrato, dal momento che il termine "natura" non deve intendersi in entrambi questi casi in un medesimo significato, perché al contrario la natura come sostrato sarebbe la materia, mentre la natura come ciò che è in un sostrato sarebbe la forma; tuttavia, ciò che è massimamente rilevante ai fini del nostro discorso è il fatto che Simplicio abbia compreso, molto opportunamente, che Aristotele sta argomentando in questo modo proprio perché il problema è quello dell'identificazione del sostrato con la materia, problema che Aristotele sarà indotto a porsi ancora una volta quando dovrà individuare il carattere della sua nozione di phusis quale nozione diversa da quella dei predecessori, che hanno identificato la natura con il principio materiale originario da cui sono costituiti o si originano gli enti naturali, cioè con il sostrato quale materia.60 60 Cf. Aristot. Meta. V 4, 1014b26 ss.

Le li. 192b33-34 di Phys. II 1, se intese nel senso del duplice significato che si deve attribuire a phusis, quello cioè di sostrato e quello di ciò che è nel sostrato, risultano allora, come dicevo, perfettamente coerenti con la lezione di Phys. I e costituiscono anche una significativa anticipazione di quanto Aristotele dirà a proposito dell'indagine sulla natura come materia-sostrato o come forma, nel corso della quale egli, oltre tutto, chiama la natura sostanza. Infatti, dopo aver distinto fra loro le espressioni "natura", phusis, "<che> ha natura", echei phusin, "per natura", phusei, e "secondo natura", kata phusin (192b32-193a1), e dopo aver mostrato quanto sia ridicolo cercare di dimostrare che la natura esiste (193a1-10), Aristotele affronta il problema del significato di phusis tramite un'argomentazione in cui si riscontra una certa identità di phusis e ousia: i pensatori che lo hanno preceduto, dice Aristotele, ritenevano che «la natura ovvero la sostanza delle cose che sono per natura (hê phusis kai hê ousia tôn phusei ontôn)» è il principio immanente in ciascuna cosa, che per se stesso è massimamente non strutturato (to prôton enuparchon hekastô, arruthmiston kath' heauto - 193a11-12):61 61 Per questo significato di phusis vd. anche Meta. V 4, 1014b26-28. Aristotele allude in modo evidente alla teoria di alcuni fra i suoi precursori secondo cui ogni ente naturale deriva da una materia originaria informe che si trasforma negli enti determinati. Ciò che differenzia la teoria di Aristotele da quella di questi pensatori è ancora una volta il fatto che costoro individuano il sostrato quale natura in un principio materiale che qui è detto per se stesso massimamente non strutturato, arruthmiston kath' heauto, laddove per Aristotele il sostrato è sempre una materia determinata che, se vista quale materia del divenire, è una materia che è sì priva di struttura, ma accidentalmente, in quanto cioè è in correlazione con una assenza di forma. Dovendo spiegare la sua nozione di phusis, Aristotele si trova a fare i conti ancora una volta con l'identificazione che i suoi predecessori hanno fatto del sostrato-natura con la materia. D'altra parte, occorre non dimenticare che alla fine di Phys. I 9, per dire che la materia sostrato né si genera né perisce, Aristotele ha usato espressioni che potrebbero facilmente confondersi con le posizioni teoriche che egli attribuisce ai predecessori, producendo così una confusione fra la sua nozione di sostrato e di natura e le corrispondenti nozioni dei filosofi che lo hanno preceduto. Aristotele infatti, alle li. 192a29 ss., aveva detto che se la materia quale sostrato si generasse, occorrerebbe che ci fosse qualcosa di primario come sostrato da cui questa si genererebbe come da suo costituente interno, ma questo sostrato primario, obiettava Aristotele, sarebbe la sua natura, sicché questa si troverebbe a esistere prima di essere generata, perché la materia, chiarisce Aristotele, si deve intendere come il sostrato primo di ciascuna cosa da cui qualcosa diviene come da un suo costituenete interno in modo non accidentale.62 62 Questo il testo di Phys. I 9, 192a29-32: eite gar egigneto, hupokeisthai ti dei prôton ex hou enuparchontos. touto d'estin autê hê phusis, hôst' estai prin genesthai (legô gar hulên to prôton hupokeimenon hekastô, ex hou gignetai ti enuparchontos mê kata sumbebêkos). La materia, infatti, è l'aspetto non accidentale del sostrato, mentre l'aspetto che fa del sostrato un non essere per accidente è costituito dalla privazione.

Secondo la posizione teorica dei fisiologi a cui Aristotele si riferisce, ad esempio, phusis del letto è il legno e phusis della statua è il bronzo:63 63 L'analogia natura/tecnica che Aristotele ha impostato sin dalle prime linee di Phys. II 1 - in ragione della quale si è anche impegnato a distinguere gli enti naturali, che hanno in quanto tali la natura come principio connaturato di mutamento, dagli enti prodotti dall'arte, che possono avere la natura quale principio solo nella misura in cui sono composti di materia naturale -, consente allo Stagirita di fare anche qui un esempio tratto dal mondo della tecnica, che ha il pregio di essere facilmente comprensibile e mostra una verità che, se vale per i prodotti tecnici, vale a maggior ragione nel caso degli enti naturali. lo Stagirita propone qui gli stessi esempi che ha già fatto in Phys. I 7, 191a8-12, in cui l'analogia permetteva di conoscere che cosa fosse la "natura soggiacente" (hupokeimenê phusis) e quale fosse la sua relazione con l'ousia. In quel passaggio come in questo, ciò che è in questione è una phusis che, a differenza di quella dei predecessori, è sempre correlata alla forma. In Phys. II 1, 193a13-18, per esprimere la posizione dei materialisti, secondo cui la phusis sarebbe semplicemente il componente materiale primario e immanente degli enti naturali, Aristotele assume il ragionamento di Antifonte,64 64 Cf. 87 B 15 D.-K. il quale ha riflettuto sull'evenienza che, se si sotterrasse un letto e questo marcisse fino a germogliare, non si genererebbe un letto, bensì del legno, ed ha perciò dedotto che il fatto che il legno è un letto è accidentale, perché il legno ha assunto una certa disposizione secondo una regola d'arte, mentre la natura-sostanza è il sostrato materiale, che è quello che permane (diamenei - 193a17) nonostante le continue modificazioni che subisce nel divenire. Se poi ciascun costituente dovesse rivelarsi secondario rispetto ad un costituente ancora più primario, come l'acqua, la terra e simili, allora quest'ultimo costituente primario dovrà considerarsi natura e sostanza.65 65 Cf. Aristot. Meta. V 4, 1015a7-10. È per questo che i fisiologi materialisti hanno identificato la phusis ora con uno ora con un altro elemento materiale, che hanno tuttavia considerato ousia, riducendo in tal modo l'aspetto formale degli enti a semplici affezioni, stati e disposizioni (pathê kai hexeis kai diatheseis), cioè, di fatto, a condizioni accessorie e accidentali rispetto alla condizione necessaria e determinante che è data dalla materia.66 66 Per tutto questo discorso si vd. anche Aristot. Meta. V 4, 1014b32 ss.

Ora, in tutto questo passaggio Aristotele sta parlando della sostanza, oujsiva, ritenendo di parlare della natura, phusis, cosa che egli non potrebbe fare se non ritenesse di avere in qualche modo identificato precedentemente natura e sostanza; inoltre, chiamando in causa i fisiologi, egli sta mostrando come costoro abbiano formulato una teoria sulla natura-sostanza, che hanno identificato con l'elemento che "permane" pur subendo ininterrottamente delle modificazioni, sulla base della quale questa natura-sostanza appare come un sostrato, hupokeimenon. Questa teoria non appare ad Aristotele del tutto sbagliata - se egli può affermare, dopo avere così argomentato, che «in un modo, dunque, la natura si dice la materia prima67 67 Qui si tratta della materia come archê, quindi come elemento primario da cui derivano gli enti, posta dai fisiologi. soggiacente a ciascuna delle cose che hanno in se stesse il principio del loro movimento e mutamento (hena men oun tropon houtôs hê phusis legetai, hê prôtê hekastô hupokeimenê hulê tôn echontôn en hautois archên kinêseôs kai metabolês- 193a28-30)» - e però è in certo qual modo rovesciata rispetto alla sua propria teoria sulla phusis, per il fatto che, secondo Aristotele, se quello di materia soggiacente, hupokeimenê phusis, è uno dei caratteri della phusis, tuttavia quello di forma, morphê o eidos", è il carattere che più ancora che la materia definisce la natura (mallon hautê phusis tês hulês dice Aristotele alle li. 193b6-7), tant'è che egli aggiunge subito che « in un altro modo <la natura> è detta la forma specifica secondo la definizione (allon de tropon hê morphê kai to eidos to kata ton logon - 193a30-31). Analogamente a quanto avviene per gli oggetti prodotti dall'arte - per i quali noi non possiamo parlare di arte né possiamo dire che è conforme all'arte un oggetto che sia un letto in potenza, che cioè è solo legno e non ha ancora la forma di letto -, avviene per gli enti naturali, perché noi non possiamo parlare di natura né possiamo dire che siano conformi alla natura la carne o l'osso in potenza, che non abbiano cioè ancora acquisito la forma della carne o dell'osso in virtù della quale li definiamo rispettivamente come carne o come osso. Sicché, ribadisce Aristotele alle li. 193b3-5, «in un altro modo la natura delle cose che hanno in se stesse un principio di movimento è la forma specifica, che non è separabile <dall'ente naturale> se non in virtù della definizione (allon tropon hê phusis an eiê echontôn en hautois kinêseôs archên hê morphê kai to eidos, ou chôriston on all' hê kata ton logon- 193b4-5)». E ciò significa che questi due sensi della natura, che insieme costituiscono l'ente naturale quale composto di materia e di forma (193b5-6), sono indissolubilmente correlati, per cui in ultima analisi non può esistere, come hanno ritenuto i predecessori di Aristotele, una materia che è al contempo sostrato e natura degli enti quale principio elementare separato da qualunque determinazione formale, ma esiste una materia sempre correlata a una forma che, se assente (sterêsis), fa sì che tale materia abbia la funzione sostratica di divenire qualcosa di determinato e, se presente (eidos), sta in rapporto alla materia come suo soggetto che è phusis costitutiva degli enti naturali. L'eidos è d'altra parte phusis di tali enti naturali, e anzi lo è in un modo ancor più rilevante rispetto alla materia quale phusis, perché è determinante degli enti naturali. Il sostrato, to hupokeimenon, o natura soggiacente, hupokeimenê phusis, è in ultima analisi per Aristotele sempre una materia soggetto di una forma: la materia vista non in rapporto all'ente naturale in quanto tale, cioè in quanto all'essere dell'ente naturale, bensì in rapporto al fatto che l'ente naturale è ciò che diviene, to gignomenon, è propriamente una materia correlata a una privazione di forma, sterêsis, in virtù della quale funge da sostrato di uno specifico processo di divenire; la materia vista in rapporto all'ente naturale in quanto tale, invece, è propriamente una materia correlata a una forma compiuta. Sia la materia sia la forma che costituiscono l'ente naturale sono la sua phusis. Sostrato e natura, allora, costituiscono in questi passaggi della Fisica aristotelica due modi della materia di essere correlata a una forma. Ancora in Phys. II 2, 194b8-9 Aristotele afferma che la materia è un relativo, perché a una differente forma appartiene una differente materia (eti tôn pros ti hê hulê. allô gar eidei allê hulê),68 68 Cf. B. Jones, Aristotle's Introduction of Matter cit., p. 495. il che indica ancora una volta che la materia non può mai essere vista senza correlazione a una forma. Ma, come si è visto, se tale correlazione è con una privazione di una forma determinata, la materia è da intendersi come sostrato, hupokeimenon o hupokeimenê phusis, di un processo di divenire di una sostanza naturale, mentre se tale correlazione è con la forma compiutamente acquisita, la materia è piuttosto natura, phusis, delle sostanze naturali.

Recebido em 12/10/2009.

Aprovado 12/11/2009.

  • Hupokeimenê Phusis nel libro I della Fisica di Aristotele: sulla natura del sostrato

    Giovanna R. Giardina
  • 1
    Delle ragioni per cui Aristotele può affrontare adeguatamente la spiegazione della nozione di
    phusis e la questione della causalità solo dopo avere impostato la sua teoria sui principi del divenire naturale, ho discusso più approfonditamente di quanto non possa fare in questa sede nel mio libro
    I fondamenti della causalità naturale. Analisi critica di Aristotele, Phys. II, Catania 2006, pp. 57 ss. Si vd. anche D. Bostock,
    Aristotle on the Principles of Change in Physics I, in M. Schofield & M.C. Nussbaum,
    Language and Logos: Studies in Ancient Greek Philosophy, Cambridge 1982, pp. 179-196.
  • 2
    Come Aristotele spiega diffusamente in
    Meta. VII 3, su cui si vd. il commento di M. Frede e G. Patzig,
    Aristoteles «Methaphysik Z», München 1988 (trad. it. di N. Scotti Muth, Milano 2001).
  • 3
    Di questa analogia si è occupata K.C. Cook,
    The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter: Aristotle's Analogy in Physics I 7, «Apeiron», 22 (1989), pp. 105-119, la cui tesi, che, come si dedurrà da questo studio, io non condivido, è che con l'espressione
    hupokeimenê phusis Aristotele intende indicare il sostrato quale causa materiale che persiste nei mutamenti delle sole sostanze naturali.
  • 4
    Su questa indicazione di metodo, che si legge anche in
    Meta. VII 3, 1029b3-5, cf. R. Bolton,
    Aristotle's Method in Natural Science: Physics
    I, in L. Judson (ed. by),
    Aristotle's Physics: a Collection of Essays, Oxford 1991, pp. 1-29.
  • 5
    Su queste questioni cf. M. Mignucci,
    La teoria aristotelica della scienza, Firenze 1965; M. Zanatta,
    Lineamenti della teoria aristotelica della scienza, in AA.VV.,
    La ricerca filosofica, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo, a cura di L. Russo, Palermo 1996, pp. 315-334; Id.,
    Metodo e statuto epistemologico della fisica di Aristotele, in
    ENÔSIS KAI PHILIA, Unione e amicizia, Omaggio a F. Romano, a cura di M. Barbanti, G.R. Giardina e P. Manganaro, Catania 2002, pp. 163-188.
  • 6
    Vd. J. Corcoran,
    A Mathematical Model of Aristotle's Syllogistic, «Archiv für Geschichte der Philosophie», 55 (1973), pp. 191-219.
  • 7
    In
    Phys. II 2, ad esempio, Aristotele mostra la differenza che intercorre fra l'oggetto di studio del matematico e quello del fisico: il matematico si occupa legittimamente di forme che sono nella materia ma che costituiscono il suo oggetto di studio quali forme separate, mentre il fisico deve occuparsi delle forme sempre insieme con la materia di cui sono forme e deve costantemente tenere presente entrambi gli aspetti, quello materiale e quello formale, degli enti naturali di cui si occupa; vd. G.R. Giardina,
    I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 93-133; cf. anche D.K.W. Modrak,
    Aristotle on the Difference between Mathematics and Physics and First Philosophy in Nature, «Apeiron», 22/4 (1989), pp. 121-139.
  • 8
    Faccio questa precisazione perché in
    APr. II 23, come è noto, Aristotele mostra che l'induzione si può ricondurre a una forma di deduzione o dimostrazione mostrando che, quando è perfetta e completa, cioè quando siano stati vagliati tutti i membri della classe in esame, l'induzione può essere espressa in forma sillogistica. Sull'induzione come necessario metodo conoscitivo dei principi primi si vd.
    APo. II 19, 100b3-4; cf. M. Mignucci,
    La teoria aristotelica della scienza cit.; D.W. Hamlyn,
    Aristotelian Epagoge, «Phronesis», 21 (1976), pp. 167-184 (trad. it. in G. Cambiano & L. Repici curr.,
    Aristotele e la conoscenza, Milano 1993, pp. 263-285); T. Engberg-Pedersen,
    More on Aristotelian Epagoge, «Phronesis», 24 (1979), pp. 301-319; K.K. Chakrabarti,
    Definition and induction. A historical and comparative study, Hawai 1995, cap. 5.
  • 9
    o[n, che si legge in Filop.
    In Phys. 90,13 e 15, è espunto da Ross (mi riferisco al volume
    Aristotle's Physics. A Revised Text with Introduction and Commentary, Oxford 1936).
  • 10
    Così Aristotele precisa in
    Phys. I 9, 192a13-14.
  • 11
    Sul valore veritativo del
    consensus omnium in Aristotele si vd. W. Wieland,
    La fisica di Aristotele, Bologna 1993, pp. 126-132 (trad. it. di
    Die aristotelische Physik. Untersuchungen über die Grundlegung der Naturwissenschaft und die sprachlichen Bedingungen der Prinzipienforschung bei Aristoteles, Göttingen 1970).
  • 12
    In linea con questa impostazione metodologica, in
    GC II 2 Aristotele ricerca i contrari primari sulla base dei quali si può spiegare la generazione reciproca degli elementi.
  • 13
    Un colore, ad esempio, può derivare dai colori contrari primari, cioè dal bianco o dal nero, ma anche da colori intermedi fra questi. Non può invece derivare da una cosa del tutto diversa, perché nessuna cosa diviene da qualunque cosa a caso, ma il divenire avviene sempre fra contrari o intermedi (
    Phys. I 5, 188a30 ss.).
  • 14
    Rimando a E. Berti,
    Sul carattere "dialettico" della storiografia filosofica di Aristotele, in G. Cambiano cur.,
    Storiografia e dossografia nella filosofia antica, Padova 1985, pp. 101-125; si vd. anche G.R. Giardina,
    I fondamenti della fisica. Analisi critica di Aristotele, Phys.
    I, Catania 2002, pp. 81-92.
  • 15
    Cf. anche
    Phys. I 9, 192a5-6.
  • 16
    Aristot.
    Cat. 5, 3b24 ss. Cf. J.P. Anton,
    Aristotle's Theory of Contrariety, Lanham (MD) 1987 (I ed. London 1957); J. Bogen,
    Aristotelian Contraries, «Topoi», 10 (1991), pp. 53-66.
  • 17
    Cf. A. Jaulin,
    Eidos et ousia. De l'unité théorique de la Métaphysique d'Aristote, Klincksieck 1999, pp. 91-92. Sull'espressione secondo cui le altre cose si predicano del sostrato cf. C.H. Chen,
    On Aristotle's Two Expressions kath' hupokeimenou legesthai
    and en hupokeimenôi einai, «Phronesis», 2 (1957), pp. 148-159; K. von Fritz,
    Once more kath' hupokeimenou
    and en hupokeimenôi, «Phronesis», 3 (1958), pp. 72-74.
  • 18
    Vd. T. Scaltsas,
    Substratum, Subject, and Substance, «Ancient Philosophy», 5 (1985), pp. 215-240.
  • 19
    Per questi significati di
    phusis cf. Aristot.
    Meta. V 4, 1014b26 ss. e 1015a7-10.
  • 20
    Queste due espressioni,
    to gignomenon e
    ho gignetai, non sempre indicano, come avviene in questo caso, rispettivamente il diveniente e il divenuto. Questa mancanza di univocità nell'utilizzo di queste due espressioni è stata notata da W. Wieland,
    op. cit., p. 142 nota 68 e pp. 155 ss., il quale sottolinea però come
    to gignomenon indichi in ogni caso il soggetto.
  • 21
    Su
    Phys. I 7 cf. W. Wieland,
    op. cit., pp. 139-171; G.R. Giardina,
    I fondamenti della fisica cit., pp. 95-112.
  • 22
    Cf. W. Wieland,
    op. cit., pp. 144-150, ma anche il mio
    I fondamenti della fisica cit., pp. 106 ss.
  • 23
    Si ricorderà che nel fr. 8,6-8 D.-K. Parmenide impedisce di dire e di pensare il divenire dell'essere dal non essere con queste espressioni interrogative: «
    tina gar gennan dizêseai autou; pêi pothen auxêthen; oud' ek mê eontos eassô phasthai s'oude noein».
  • 24
    Sono d'accordo con Sh. Cohen,
    Aristotle's Doctrine of the Material Substrate, «The Philosophical Review», 93 (1984), p. 182, sul fatto che, come mostra anche Denniston (
    The Greek Particles, Oxford 1966, II ed., pp. 301-305), non si debba dare una lettura assertiva ma concessiva di eij kaiv e che l'unicità numerica del sostrato non indichi l'identità del sostrato per tutti i tipi di mutamento. Al contrario, Aristotele sta qui stabilendo la duplicità formale del sostrato pur nella sua unicità numerica.
  • 25
    Allo stesso modo in Aristot.
    Meta. VII 7, 1032b4 ss., la sostanza della malattia è la salute perché la malattia è assenza di salute.
  • 26
    Il sostrato quale materia privativa, infatti, diviene qualcosa in quanto è ciò che "non è" quella determinata cosa che diviene. Cf. W. Wieland,
    op. cit., pp. 164 ss.
  • 27
    Ho cercato di mostrare che questa descrizione del divenire di
    Phys. I 7 costituisce il modello di base per ogni tipo di mutamento in G.R. Giardina,
    La chimica fisica di Aristotele. Teoria degli elementi e delle loro proprietà. Analisi critica del De generatione et corruptione, Roma 2008, pp. 89-92, anche se non penso affatto che ciò implichi che si debba ammettere in Aristotele un sostrato unico per tutti i mutamenti, vd. pp. 83 ss. Ci sono studiosi di Aristotele che ritengono, però, che questo passaggio 190a13-21 si riferisca soltanto ai processi di alterazione, cf. W. Charlton,
    Aristotle's Physics I, II, Oxford 1970, p. 73; B. Jones,
    Aristotle's Introduction of Matter, «The Philosophical Review», 83 (1974), pp. 478-479; R. Dancy,
    On Some of Aristotle's Second Thoughts about Substances: Matter, «The Philosophical Review», 87 (1978), p. 385 n. 35. Vd.
    contra Sh. Cohen,
    Aristotle's Doctrine of the Material Substrate cit., pp. 181-182 e n. 16.
  • 28
    Vd. Aristot.
    GC I 4, 319b14-18.
  • 29
    Su questa questione cf. G.R. Giardina,
    La chimica fisica di Aristotele cit., pp. 83-92; nello stesso volume alla p. 83 nota 1 si troverà la bibliografia relativa all'argomento.
  • 30
    Per indicare la proprietà opposta, Aristotele adopera non più, come ha fatto prima, la negazione della stessa proprietà, cioè non musico (
    mê mousikon), bensì lo stesso termine che indica la proprietà positiva con l'
    a privativo, cioè
    amouson.
  • 31
    La forma è qui indicata da Aristotele con il termine
    morphê, che è da una parte forma specifica,
    eidos, e dall'altra parte privazione,
    sterêsis. Sono d'accordo con L. Couloubaritsis (
    La Physique d'Aristote, deuxième édition modifiée et augmentée de
    L'avènement de la science Physique, Bruxelles 1997, pp. 243 ss.) nel ritenere che l'intepretazione tradizionale che unifica
    morphê ed
    eidos sotto la designazione di "forma" sia errata e insufficiente. Vd. a questo proposito Simplicio,
    In Phys. 276,24 ss.; Filopono,
    In Phys. 215,8 ss.
  • 32
    Cf. Aristot.
    Meta. VII 4.
  • 33
    In
    GC I 2, 317a23-24, Aristotele attribuisce al sostrato sia il carattere formale che quello materiale:
    En gar tô hupokeimenô to men esti kata ton logon, to de kata tên hulên. Su entrambi questi passaggi punta la sua attenzione Sh. Cohen,
    Aristotle's Doctrine of the Material Substrate cit., p. 189, per mostrare che il sostrato è un principio composto in quanto comprende sia la materia che la forma.
  • 34
    Questo passaggio ha bisogno di una precisazione: Aristotele dice letteralmente dei contrari che sono due di numero, ma adduce come ragione del fatto che in verità i principi non sono in modo assoluto due (bensì tre) il fatto che il loro essere ha esistenza differente (
    out' au pantelôs duo dia to heteron huparchein to einai autois, alla treis - 190b36-191a1). Questo dovrebbe significare, a mio avviso, che l'essere della forma ha esistenza differente dall'essere della privazione, perché l'uomo musico ha esistenza differente rispetto all'uomo non musico, in quanto l'uno esiste come essere mentre all'altro si può semmai riconoscere esistenza come non essere. Dopo l'espressione
    alla treis, però, Aristotele riprende a parlare di differenza, usando un esplicativo
    gar, ma distinguendo stavolta l'essere del sostrato da quello della privazione, per cui qualche interprete, come ad esempio P. Pellegrin,
    Aristote. Physique, Paris 2000, p. 106 nota 2, intende, sulla base degli esempi, che anche prima Aristotele intendeva distinguere appunto l'essere del sostrato da quello della privazione. E tuttavia, quando Aristotele ha detto
    to einai autois sta parlando chiaramente dei contrari! A me sembra che nel primo caso Aristotele si riferisca ai contrari e che tuttavia, in quanto sta parlando di un diverso modo di esistenza (
    huparchein) dell'essere di ciascuno, non intenda semplicemente il musico e il non musico, bensì l'uomo musico e l'uomo non musico, per cui occorre ammettere che i principi sono tre. Quando poi alla li. 191a1 aggiunge
    heteron gar, allora intende distinguere, diversamente da quanto ha fatto prima, l'essere del sostrato da quello della privazione.
  • 35
    Lo stesso concetto è ribadito in
    Phys. II 3, 19511-14 e
    Meta. V 2, 1013b12-16. È evidente che si tratta di una considerazione di ordine razionale, perché riduce i contrari alla sola proprietà che si manifesta nel doppio modo dell'assenza e della presenza.
  • 36
    Sull'utilizzo dell'analogia in questo contesto della
    Fisica cf. K.C. Cook,
    The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter cit. Più in generale, sull'analogia matematica e sulla sua utilizzazione in ambito filosofico da parte sia di Platone che di Aristotele si vd. Th. Heath,
    A History of Greek Mathematics, Oxford 1921; A. Szabò,
    L'aube des mathématiques grecques, Paris 2000. Per quanto concerne l'analogia quale modello ermeneutico nell'antichità si vd. G.R. Lloyd,
    Polarità ed analogia. Due modi di argomentazione nel pensiero greco classico, Napoli 1992 (trad it. dell'originale del 1962).
  • 37
    Sul carattere analogico della dimostrazione di materia cf. J. Owens,
    The Aristotelian Argument of the Material Principle of Bodies, in I. Düring hrsg.,
    Naturphilosophie bei Aristoteles und Theophrast, Heidelberg, pp. 193-209, il quale, però, è un sostenitore della teoria della materia prima in Aristotele; cf. anche J. Owens,
    The Doctrine of Being in the Aristotelian Metaphysics, Toronto 1951, p. 337.
  • 38
    Questo è l'intero passo 191a7-12:
    hê de hupokeimenê phusis epistêtê kat' analogian. ôs gar pros andrianta chalkos ê pros klinên xulon ê pros tôn allôn ti tôn echontôn morphên [hê hulê kai] to amorphon echei prin labein tên morphên, houtôs hautê pros ousian echei kai to tode ti kai to on. Ritengo con Charlton che l'espressione
    hê hulê kai, eliminata da Diels seguito da Ross, vada integrata.
  • 39
    Sul problema dell'analogia
    technê/phusis" in Aristotele sono ancora utili gli studi di H. Mayer,
    Natur und Kunst bei Aristoteles, Paderborn 1919, pp. 85 ss.; di M. Timpanaro Cardini,
    PHUSIS e TECHNÊ in Aristotele, in V.E. Alfieri e M. Untersteiner curr.,
    Studi di filosofia greca, Bari 1950, pp. 279-305; di W. Theiler,
    Zur Geschichte der teologischen Naturbetrachtung bis auf Aristoteles, Berlin 1965
    2 2 Come Aristotele spiega diffusamente in Meta. VII 3, su cui si vd. il commento di M. Frede e G. Patzig, Aristoteles «Methaphysik Z», München 1988 (trad. it. di N. Scotti Muth, Milano 2001). ; di K. Bartels,
    Der Begriff Techne bei Aristoteles, in
    Synousia. Festgabe für W. Schadewaldt, hrsg. von H. Flashar & K. Gaiser, Pfullingen 1965, pp. 275 ss.. Si vd. anche G.A. Ferrari,
    L'officina di Aristotele: natura e tecnica nel II libro della "Fisica", «Rivista critica di storia della filosofia», 32/2 (1977), pp. 144-173; A. Petit,
    «L'art imite la nature»: les fins de l'art et les fins de la nature, in
    Aristote et la notion de nature, éd. par P.M. Morel, Bordeaux 1997, pp. 35-43; e R.L. Cardullo,
    L'analogia technê-phusis
    e il finalismo universale in Aristotele Fisica
    II, in R.L. Cardullo e G.R. Giardina curr.,
    La Fisica di Aristotele oggi. Problemi e prospettive, Catania 2005, pp. 51-109.
  • 40
    Ritengo che con l'espressione
    hupokeimenê phusis Aristotele intenda indicare la sua propria nozione di sostrato,
    hupokeimenon, quale nozione diversa da quella dei fisiologi e di Platone, che hanno inteso il sostrato quale materia indeterminata, e penso che
    hupokeimenê phusis si riferisca anche al bronzo e al legno presenti nell'analogia, si riferisca cioè al sostrato di tutti gli enti che divengono, sia naturali che artificiali. Non sono quindi d'accordo con l'interpretazione di K.C. Cook,
    The Underlying Thing, the Underlying Nature and Matter cit., pp. 112 e 119, secondo la quale
    hupokeimenê phusis si dovrebbe intendere come materia fisica quale sostrato delle sole sostanze naturali. La
    hupokeimenê phusis è considerata indifferentemente in rapporto con enti artificiali ed enti naturali da W. Charlton
    Aristotle's Physics I, II cit., e da B. Jones,
    Aristotle's Introduction of Matter cit., e tuttavia entrambi non sembrano cogliere la differenza che sussiste fra la nozione aristotelica di
    hupokeimenê phusis e la nozione di
    hupokeimenon dei predecessori di Aristotele. Per Charlton la
    hupokeimenê phusis è infatti semplicemente il sostrato, per Jones invece è la materia, mentre ha ragione la Cook, p. 118, a far notare che Aristotele deve avere una ragione in virtù della quale parla di
    phusis soggiacente. La ragione non è però quella che ella propone, e cioè che la natura soggiacente, pur senza essere materia prima, è tuttavia il principio materiale delle sole sostanze naturali, per cui non si può parlare di
    hupokeimenê phusis nel caso del bronzo e del legno, bensì a mio avviso il fatto che Aristotele sta presentando una nozione nuova di sostrato, che è sì materia ma correlata ad una privazione di forma, e perciò diversa da ciò che i predecessori hanno in precedenza chiamato ora sostrato,
    hupokeimenon, e ora natura,
    phusis. Questo uso linguistico dei predecessori, che hanno individuato nella materia indeterminata il sostrato,
    hupokeimenon, e la natura,
    pusis, degli enti, giustifica il fatto che nel proporre la sua nozione di sostrato Aristotele la chiami natura soggiacente,
    hupokeimenê phusis, perché egli vuole opporre questa sua nozione al sostrato-natura di quelli. La prova che tutti gli esempi fatti nell'analogia valgano quale natura soggiacente mi sembra risulti facilmente dal fatto che, dopo aver citato il bronzo e il legno, Aristotele generalizzi i termini di questo primo gruppo dicendo
    to amorphon o, meglio ancora se si accetta l'integrazione nel testo dell'espressione espunta da Diels,
    hê hulê kai to amorphon, che indica che qualunque materia che è correlata con una privazione funge da
    hupokeimenê phusis. Che poi Aristotele faccia esempi tratti dal mondo artificiale, perché più facilmente conoscibili per noi, mentre il suo scopo è quello di chiarire il problema del sostrato degli enti naturali, più noto per natura, questo mi pare indiscutibile.
  • 41
    Alle li. 191a6-7, infatti, Aristotele scrive: «
    hikanon gar estai to heteron tôn enantiôn poiein tê apousia kai parousia tên metabolên»
  • 42
    Vd.
    Phys. I 7, 191a15-19.
  • 43
    Cf. Parmenide, fr. B 8, soprattutto li. 15-21 D.-K.
  • 44
    Se si accetta la correzione di Bonitz, seguita da Ross, di
    dei in
    dein, si ottiene che l'intera espressione
    hupokeisthai gar ti dein viene fatta dipendere da
    phasin e quindi attribuita agli Eleati. Tuttavia questa è la tesi di Aristotele, che ha fin qui insistito sulla necessità di porre come terzo principio il sostrato, per cui penso che la correzione non sia necessaria.
  • 45
    Di questo aspetto del problema si è occupato M.J. Loux,
    Aristotle and Parmenides: An Interpretation of Physics A.8, «Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy», 8 (1992), pp. 320-326. Loux pone la sua attenzione su quello che egli chiama modello predicazionale del rapporto materia-forma, secondo cui la nozione di materia del divenire individua qualcosa che esiste prima del divenire e che è soggetto di predicazione della forma in cui culmina il divenire stesso. La materia costitutiva dell'ente che è divenuto in atto e la materia che è per se stessa soggetto del divenire sono, secondo Loux, la medesima cosa, e la materia ha un'identità indipendente dalla forma che si predica di essa per accidente (cf. anche M.J. Loux,
    Composition and Unity: An Examination of Metaphysics H 6, in M. Sim (ed. by),
    The Crossroad of Norm and Nature. Essays on Aristotle's Ethics and Metaphysics, Boston-Lanham 1995, soprattutto pp. 261-265). Questa proposta ermeneutica, secondo cui è la stessa la materia di ciò che diviene e di ciò che è divenuto, mi pare si adatti bene ai casi del divenire che non sia un divenire della sostanza, ma non si comprende come possa essere la stessa la materia funzionale (nel caso del sostrato del divenire) e la materia costitutiva (quella cioè della sostanza naturale) nel caso in cui, quando avviene una generazione in senso assoluto, muta sia la forma sia la materia, come sostiene Aristotele. Più che un problema di identità (di materia o di sostrato), a me sembra che Aristotele ponga un problema di persistenza o permanenza del sostrato quale soggetto di predicazione. È sempre necessario, per Aristotele, che ci sia un soggetto di predicazione di una forma concepita nella doppia modalità dell'assenza e della presenza, e tale doppia modalità della forma comporta una doppia funzionalità della materia: una materia correlata a una privazione di forma è sostrato del divenire naturale, perché è accidentalmente non essere e perciò non è più solo materia, ma materia funzionale a un preciso processo di divenire; una materia correlata a una forma è sostrato di una sostanza naturale e perciò è materia costitutiva di tale sostanza. Questo significa che la nozione di sostrato non è mai esaurito dalla nozione di materia.
  • 46
    Phys. I 8, 191b33-34.
    Scil. l'ignoranza riguardo alla generazione, alla corruzione e in generale al mutamento.
  • 47
    Così anche W.D. Ross,
    Aristotle's Physics cit., p. 497.
  • 48
    Cf.
    Phys. I 9, 192a3-5.
  • 49
    Aristotele dice genericamente
    heteroi tines, ma che si tratti dei Platonici appare chiaramente a partire dalla li. 192a6.
  • 50
    P. Pellegrin accorda
    haplôs con
    homologousin anziché con
    ginesthai, come fanno la maggior parte dei traduttori. Di certo qui
    haplôs non indica la generazione in senso assoluto, ma semplicemente il fatto che il divenire ha come punto di partenza in ogni caso il non essere.
  • 51
    In effetti Parmenide, come lo stesso Aristotele ha già detto prima, negava
    tout court che ci sia divenire. Tuttavia qui Aristotele potrebbe voler dire che, in quanto il divenire dell'essere dall'essere rimanda sempre all'essere (da cui diviene), porre che l'essere diviene dall'essere è una banalità che comporta un rimando all'infinito all'essere prima dell'essere che non spiega la nascita dell'essere. La conseguenza di questo ragionamento, necessariamente valida anche per Parmenide, è che se il divenire fosse possibile, occorrerebbe porre che l'essere diviene dal non essere.
  • 52
    Qui
    heteran al femminile riprende
    hupokeimenê phusis indicando un aspetto di tale natura che soggiace.
  • 53
    Come ha segnalato W. Charlton (
    Aristotle's Physics I, II cit., pp. 82-83), in tutto questo passaggio Aristotele riprende il linguaggio di Plat.
    Timeo 49-53.
  • 54
    Vd.
    Phys. I 9, 192a14-25.
  • 55
    Per un'argomentazione più dettagliata relativa all'interpretazione delle li. 192b33-34, cf. G.R. Giardina,
    I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 67-74.
  • 56
    E. Laas,
    Aristotelische Textes-Studien, in
    Jahresbericht Friedrichs-Gymnasium und Realschule, Berlin 1863.
  • 57
    A. Mansion,
    Introduction à la Physique aristotélicienne, Paris-Louvain 1945, p. 100 nota 15.
  • 58
    Carteron non segue la punteggiatura proposta da Laas e tuttavia non si discosta dagli altri interpreti per il senso che attribuisce alla frase.
  • 59
    Cf. L. Couloubaritsis,
    Aristote. Sur la nature (Physique II), Introduction, traduction et commentaire par L. C., Paris 1991; A. Stevens (trad. par),
    Aristote. La Physique, Introd. par L. Couloubaritsis, Paris 1999. Entrambi traducono
    ousia con "essenza". Io ritengo che la lezione oujsiva sia corretta, come ho cercato di chiarire in G.R. Giardina,
    I fondamenti della causalità naturale cit., pp. 289-290.
  • 60
    Cf. Aristot.
    Meta. V 4, 1014b26 ss.
  • 61
    Per questo significato di
    phusis vd. anche
    Meta. V 4, 1014b26-28.
  • 62
    Questo il testo di
    Phys. I 9, 192a29-32: eite gar egigneto, hupokeisthai ti dei prôton ex hou enuparchontos. touto d'estin autê hê phusis, hôst' estai prin genesthai (legô gar hulên to prôton hupokeimenon hekastô, ex hou gignetai ti enuparchontos mê kata sumbebêkos).
  • 63
    L'analogia natura/tecnica che Aristotele ha impostato sin dalle prime linee di
    Phys. II 1 - in ragione della quale si è anche impegnato a distinguere gli enti naturali, che hanno in quanto tali la natura come principio connaturato di mutamento, dagli enti prodotti dall'arte, che possono avere la natura quale principio solo nella misura in cui sono composti di materia naturale -, consente allo Stagirita di fare anche qui un esempio tratto dal mondo della tecnica, che ha il pregio di essere facilmente comprensibile e mostra una verità che, se vale per i prodotti tecnici, vale a maggior ragione nel caso degli enti naturali.
  • 64
    Cf. 87 B 15 D.-K.
  • 65
    Cf. Aristot.
    Meta. V 4, 1015a7-10.
  • 66
    Per tutto questo discorso si vd. anche Aristot.
    Meta. V 4, 1014b32 ss.
  • 67
    Qui si tratta della materia come
    archê, quindi come elemento primario da cui derivano gli enti, posta dai fisiologi.
  • 68
    Cf. B. Jones,
    Aristotle's Introduction of Matter cit., p. 495.
  • Publication Dates

    • Publication in this collection
      14 Jan 2011
    • Date of issue
      Dec 2010
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