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«Far parlare il silenzio della storia»: la svolta narrativa dei musei

Riassunto

La narrazione assume uno statuto molteplice: diventa una struttura impiegata per offrire contestualizzazioni o uno stratagemma per superare problemi di comunicazione museale quale ad esempio mettere insieme fonti, temi e soprattutto temporalità eterogenee. Con la new museology si è affermata l’idea che il museo non è collocabile in un empireo dal quale garantisce una visione universale. Il museo narrativo nacque dalla crisi di modelli sino allora egemoni. In secondo luogo entrarono in crisi le modalità autoreferenziali di comunicazione. “Mettere la periferia al centro”, offrire attenzione a chi dalla storia non ha avuto riconoscimento, che dalla tempesta del moderno ha solo subito, ovvero far parlare soggetti, territori, culture che hanno visto negata la loro voce e la loro identità. La mostra RISARCIMENTI [Storie di vita e di attesa], 2011, il Museo Etnomuseo Monti Lepini, il Museo del Brigantaggio di Itri e il Museo del Brigantaggio di Cellere parlano di questa prospettiva. Allora, ci deve invitare ad assumere una dimensione riflessiva, a produrre opere non perentorio e monolitiche ma parziali e anche facilmente smontabili e criticabili.

Museo Narrativo; new museology; storie polifoniche; musei italiani

Resumo

A narração assume um estatuto múltiplo: torna-se uma estrutura empregada para oferecer contextualizações ou um estratagema para superar problemas de comunicação de museu, como por exemplo juntar fontes, temas e, sobretudo, temporalidades heterogêneas. Com a new museology, afirmou-se a ideia de que o museu não pode ser colocado em um empíreo, do qual garante uma visão universal. O museu narrativo nasceu da crise de modelos até então hegemônicos. Em segundo lugar, entraram em crise as modalidades autorreferenciais de comunicação. “Colocar a periferia no centro”, oferecer atenção a quem não teve reconhecimento pela história, que só sofreu a partir da tempestade do moderno, ou seja, fazer falarem sujeitos, territórios, culturas que viram negada a sua voz e a sua identidade. A mostra RISARCIMENTI [Storie di vita e di attesa], 2011, o Museu Etnomuseo Monti Lepini, o Museu do Brigantaggio di Itri e o Museu do Brigantaggio di Cellere falam desta perspectiva. Então, deve-nos convidar a assumir uma dimensão reflexiva, produzir obras não decisivas e monolíticas, mas parciais e também desmontáveis e criticáveis.

Museu Narrativo; new museology; histórias polifônicas; museus italianos

Abstract

Narratives perform numerous tasks: they are a structure employed to offer contextualization or a stratagem to overcome museum’s communication problems, for example, a way of linking sources, themes, and particularly, heterogeneous temporalities. The new museology concept, says a museum cannot be empirical, from which a universal vision is guaranteed. This crisis, caused by the hegemonic models of old, gave rise to narratives in museums. Secondly, the auto-referential modalities of communication went into crisis. “Place the periphery in the centre,” to attract attention to those who would not have been recognised via the history itself, an occurrence which has only deteriorated since the modern storm, i.e. make them speak of individuals, territories and cultures whose own voices and identities had been denied. The RISARCIMENTI exposition [Storie di vita e di attesa], 2011, at the Etnomuseo Monti Lepini Museum, Brigantaggio di Itri Museum and the Brigantaggio di Cellere Museum refer to this perspective. So, we must endeavour to undertake a reflexive dimension, and not produce decisive and monolithic exhibitions but partial ones which can be dissected and criticised.

Narrative Museums; new museology; polyphonic stories; Italian museums

Di musei narrativi ce ne sono stati anche nel passato. Mi sembra opportuno ricordare che in pieno Rinascimento il principe o lo studioso che possedeva collezioni costruiva la propria autorevolezza (e inventava il proprio ruolo di guida culturale) narrando – talvolta ricostruendo la maniera eroica del reperimento di determinati pezzi – gli oggetti custoditi nella sua camera delle meraviglie. Per molti versi audace e seminale fu la narrazione adottata nelle esposizioni universali dalla metà dell’Ottocento. In questo caso veniva proposto ai visitatori un percorso narrativo evolutivo che partendo dai “fossili viventi”, dai “primitivi” esposti in tableaux vivants all’interno di contesti selvaggi ricostruiti, giungeva agli ultimi avanzamenti della tecnica e della civiltà (PADIGLIONE, 2013aPADIGLIONE, V. L’immaginario del futuro: utopie, distopie, eterotopie nello spazio museale. Antropologia Museale, v. autunno - inverno 2012, n. 32-33, p. 46-55, 2013a., 2013bPADIGLIONE, V. Costruire kronoscapes: temporalità ibride nel musei del brigantaggio. L’Uomo, n. 1-2, p. 137-155, genn./dic. 2013b.).

Ritengo però sia anche giusto precisare che i musei narrativi entrano a pieno titolo nel dibattito della museologia negli anni Novanta del secolo appena passato, o poco prima. La loro affermazione è legata al fenomeno sociale, rilevantissimo, costituito dal guadagnare centralità delle memorie, anche come effetto dei memorial e della presenza sempre più diffusa di musei sorti intorno all’identità di gruppi culturali e locali specifici. La cosa interessante è che, da questo frangente in avanti, la narrazione assume uno statuto molteplice: diventa una struttura impiegata per offrire contestualizzazioni (meglio se incorporate in soggetti specifici) o uno stratagemma per superare problemi di comunicazione museale quale ad esempio mettere insieme fonti, temi e soprattutto temporalità eterogenee. La centralità della narrazione segna anche lo sdoganamento – mi sembra molto importante segnalarlo – dell’immaginario letterario e artistico in ambito museale. Se in precedenza la letteratura e l’arte avevano incontrato difficoltà ad entrare nei musei scientifici, storici ed etnografici, negli anni Novanta queste oltrepassano quella soglia e lo fanno proprio sulla base di una istanza di connessione logico-interpretativa tra eterogeneità di oggetti e di orizzonti.

Questo cambiamento di paradigma è avvenuto grazie all’assunzione e alla diffusione con grande rapidità di una postura interpretativa che si è manifestata spodestando nei musei un fare puramente ostensivo o classificatorio e indebolendo quella contrapposizione tra arte e scienza che rendeva reciprocamente impermeabili i due ambiti e i loro specifici linguaggi.

Con la new museology (VERGO, 1989VERGO, P. (Ed.). The New Museology. London: Reaktion Books, 1989.; PADIGLIONE, 2008PADIGLIONE, V. Musei: esercizi a decostruire già operanti e per volenterosi (1994). In: PADIGLIONE, V. Poetiche dal museo etnografico: spezie morali e kit di sopravvivenza. Imola: La Mandragora, 2008. p. 35-75.) si è affermata l’idea che il museo non è collocabile in un empireo dal quale garantisce una visione universale, e che anzi il medesimo individua un frame parziale che rappresenta uno sguardo situato che produce discorsi politici, nonché interpretazioni storiche particolari, dalla diretta relazione con la realtà esterna.

La pratica espositiva – privilegi essa vetrine o scenografie, diorami o installazioni – costituisce pur sempre una messa in forma espressiva, una mediazione simbolica rispetto all’opera o al documento. Oggi percepiamo con più chiarezza che la scelta di un contenitore asettico, di una cornice non personalizzata o quella di isolare l’oggetto tramite uno spazio vuoto e bianco intorno sono mosse tutt’altro che neutre: partecipano di precise scelte storiche, culturali. «Anche le luci e le bacheche», ben chiaramente precisa Pietro Clemente (1996CLEMENTE, P. Graffiti di museografia antropologica italiana. Siena: Protagon Editori Toscani,1996., p. 47),

sono metafore di forme del sapere: luci neutre come il sapere positivistico, bacheche trasparenti come l’idea di una scienza-verità, geometrie e ritmi razionalistici di bacheche-luci-pannelli come l’idea di una scienza ordinatrice e legalizzante, priva di emozione e di immaginario, costruttrice di spazi simili a concetti per questo chiusi ad altre forme della razionalità percettiva, fantastica, emozionale.

La svolta – interpretativa e riflessiva (riconoscersi portatori di un discorso non neutrale porta come conseguenza il porre in discussione i valori messi in mostra, il punto di vista del curatore) – venne a potenziare la missione di inclusione sociale già presente nella museologia degli anni Sessanta e che diverrà poi dirompente nell’ultimo decennio del secolo appena trascorso. La museologia di colpo si scoprì narrativa, e ciò venne a colpire quel baluardo elitistico, quella postura solenne e magniloquente che caratterizzava il museo ancora nei turbolenti anni Settanta.

Ecco, vorrei proprio sottolineare che il museo narrativo nacque dalla crisi di modelli sino allora egemoni. In primo luogo svaporò l’illusione di matrice esclusivista che coltivava l’immagine del museo come tempio di verità universali fatalmente riservato ai pochi cultori della religione laica dell’Arte, della Bellezza; del museo come casa nobile per opere dotate di valore in sé, di eccellenze tanto autoevidenti da non richiedere narrazioni e altre mediazioni linguistiche. In secondo luogo entrarono in crisi le modalità autoreferenziali di comunicazione: quell’illusione razionalista che aveva trovato espressione soprattutto nei musei naturalistici e archeologici e che si concretizzava nell’utilizzo mimetico (a livello di composizione degli apparati descrittivi e cartellini) dei linguaggi mutuati dalle diverse tradizioni disciplinari impiegati usualmente nelle classificazioni e nella letteratura scientifica specialistica.

I cultural studies e i museum studies - in particolare la sociologia e l’antropologia critico riflessiva, si veda per l’Italia la rivista AM-Antropologia museale e le ricerche di Palumbo (2001PALUMBO, B. The social life of local museums. Journal of Modern Italina Studies, v. 6, n. 1, p. 19-37, 2001. e 2006PALUMBO, B. L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale. Roma: Meltemi,2006.) - mostrarono che l’efficacia riposta in questi linguaggi tecnici e presunti metacodici analitici era di confermare la distinzione sociale (BOURDIEU; DARBEL, 1969BOURDIEU, P.; DARBEL, A. L’amour de l’art: les musées et leur public. Paris: Minuit,1969.; BOURDIEU, 1979BOURDIEU, P. La distinction. Paris: Minuit, 1979.), anziché favorirne la comprensione; linguaggi – peraltro – refrattari a dare conto della complessità illusoria dell’esperienza, e del tutto estranei (LYOTARD, 1979LYOTARD, J.-F. La condition postmoderne. Paris: Minuit, 1979.) a quei nuovi pubblici dei musei che la missione di inclusione sociale pretendeva di attrarre.

Il modello narrativo si è diffuso e tendenzialmente risulta essere presente, con sperimentazioni e banalizzazioni, in una parte consistente di musei che si sentono contemporanei. Molto spesso i risultati più deludenti vanno attribuiti al confondere la narrazione con la divulgazione, la comunicazione con la didattica museale: una vera e propria deriva impoverente. Come se narrare fosse un livello conoscitivo inferiore, sotto sotto infantile, e richiedesse di abbassare il rigore della documentazione e dell’interpretazione. Si dimenticano in tal modo le potenzialità che il racconto ha di offrirci una presa diretta con un “mondo altro”, di farci entrare in realtà composite per tematiche, sfumature di senso e pluralità dei punti di vista. È proprio grazie all’unità narrativa che questa complessità si intrama, trova una messa in forma per le sequenze di eventi, uno sviluppo per le dinamiche e i conflitti, una sintesi di elementi eterogenei, un percorso tra le diversità, le avversità e i protagonisti.

La narrazione mette in tensione permanenza e cambiamento, costituisce un modello che non ha eguali per comprendere e rappresentare la vita umana, per configurare un’identità come un processo di costruzione (cfr. WHITE, 1983WHITE, H. La questione della narrazione nella teoria contemporanea della storiografia. In: ROSSI, P. (a cura di) La teoria della storiografia oggi. Milano: Il Saggiatore, 1983.; BRUNER, 1987BRUNER, J. S., Life as narrative. Social Research, v. 54, n. 1, p. 11-32, 1987., 1991BRUNER, J. S. The narrative construction of reality. Critical Inquiry, v. 18, n. 1, p.1-12, Autumn 1991. .; RICŒUR, 1983RICŒUR, P. Temps et récit: l’intrigue et le récit historique: Paris: Seuil, 1983. t. I., 1984RICŒUR, P. Temps et récit: la configuration dans le récit de fiction. Paris: Seuil, 1984. t. II., 1985RICŒUR, P. Temps et récit: le temps raconté. Paris: Seuil, 1985. t. III., 1988RICŒUR, P. L’identité narrative. Esprit, n. 7-8, p. 295-304, 1988., 1993RICŒUR, P. Sé come un altro. a cura di D. Iannotta. Milano: Jaca Book, 1993., 2004RICŒUR, P. Ricordare, dimenticare, perdonare: l’enigma del passato. Bologna: Il Mulino, 2004.). Si può fare ottima narrazione senza appiattire discorsi e significati al piano della divulgazione arricchendo gli stessi di piani e storie che proprio la ricerca può fornire. Altresì è possibile comunicare talora proprio grazie alla narrazione, alla parodia e all’ironia livelli diversi di significazione. È quanto teorizzato e praticato in architettura come in letteratura dal postmoderno e dal rinvio alla nozione di double coding, quale voluta apertura di un testo a più legittime interpretazioni (JENCKS, 2002JENCKS, Ch. The new paradigm in architecture, London: Yale University Press, 2002.).

L’approccio che avverto più convergente con le mie pratiche di antropologo, e che a me interessa valorizzare, è la visione dialogica di Bachtin (1981BACHTIN, M. The dialogic imagination: four essays. London: University of Texas Press, 1981.; cfr. anche SOBRERO, 2009SOBRERO, A. M. Il cristallo e la fiamma: Antropologia fra scienza e letteratura. Roma: Carocci, 2009.), la quale, trasposta nel nostro campo museale, invita chi pratica la narrazione a riflettere sul modo in cui un testo narrativo pone interrogativi e stimola in qualche modo delle risposte da dare. Invita il visitatore ad un “leggere” che alla maniera di de Certeau (1980CERTEAU, M. de. L’Invention du quotidien. Paris : Union Générale d’Éditions, 1980., p. 17; cfr. anche PADIGLIONE, 2012PADIGLIONE, V. O lugar onde todas as palavras se concretizam: cinco presenças da escrita em pequenos museus etnográficos, In: CASTELLS, A. N. G.; NARDI, L. (Org.). Patrimônio cultural e cidade contemporânea. Florianopolis: UFSC, 2012. p. 33-48.), «significa peregrinare in un sistema imposto (quello del testo), analogo all’organizzazione fisica di una città o di un supermercato... un sistema di segni verbali o iconici che è una riserva di forme che attendono dal lettore il loro senso». Oggi è sempre più frequente allestire un percorso espositivo punteggiando la presenza dei media elettronici, dando articolazione a linguaggi e registri diversi (dal testuale al sonoro, dal figurale al filmico). Appare allora importante gestire come dialogo da intessere con il visitatore una narrazione così diversamente dislocata e comunicata ponendo questioni e lasciando aperte possibili risposte.

In questa direzione il mio modo di lavorare deve molto alla prospettiva inaugurata da Walter Benjamin. Adorno nel 1955 (ed it. 1979)ADORNO, T. W. Introduzione agli scritti di Benjamin. In: ADORNO, T. W. Note per la letteratura 1961-1968. Torino: Einaudi, 1979. p. 243-257., interpretando l’opera di questo grande maestro del Novecento, ne sottolinea il suo «porre incessantemente il centro in periferia invece di sviluppare il periferico a partire dal centro, come pretendono l’esercizio dei filosofi e la teoria tradizionale». In un testo del 1989 per molti versi anticipatore, Clemente ne ritaglia la parola chiave e la assume come icona concettuale di un programma teso a valorizzare le tradizioni popolari quali risorsa di alterità culturali e i musei etnografici come potenzialità locali di produrre futuro. In quel testo si scorge la tensione profetica di Benjamin. Clemente (1989CLEMENTE, P. Il centro in periferia. Amiata, Storia e Territorio, n. 5, p. 57-67, 1989., p. 57) invita ad «avere coraggio di costruire, nonostante tutto, dove è più improbabile l’evento della costruzione culturale, ma dove al tempo stesso l’evento si annuncia, o cerca di trasparire».

Una sfida impari alle logiche della modernizzazione, una radicale apertura di credito verso un accadere inedito, da attendere e da attivare in luoghi minori, con soggetti ormai dimenticati e con le loro piccole quotidiane cose. Fu questa scommessa visionaria e divinatoria che, insieme al maturare di uno scenario internazionale favorevole ad una svolta narrativa e riflessiva, permise a molti di noi antropologi e/o museali di immaginare un senso forte per il nostro operato e di ritrovarci – all’interno della più ampia comunità scientifica e professionale – entro un “movimento” portatore di una propria missione etico conoscitiva (cfr. PADIGLIONE, 2014).

“Mettere la periferia al centro”, offrire attenzione a chi dalla storia non ha avuto riconoscimento, che dalla tempesta del moderno ha solo subito, ovvero far parlare soggetti, territori, culture che hanno visto negata la loro voce e la loro identità è un programma di ricerca e al tempo stesso una poetica e una narrativa museale, potenzialmente praticabile dai musei archeologici, storici ed etnografici. Si tratta di un impegno ad esercitare, per via museale e in compenetrazione con il rigore della ricerca documentaria e critica, un’azione di riparazione, di equità nei confronti di coloro che ci hanno preceduto lasciandoci indizi della loro vita. Un invito ad operare con buone maniere nei confronti dei morti, soggetti esemplari dell’alterità culturale che i musei mettono in mostra, e a progettare una “buona narrazione” (una narrazione che sia rispettosa della eredità e delle istanze della fruizione, specialmente di quelle provenienti dalle generazioni future).

Insegno antropologia museale e etnografia della comunicazione. Penso che oggi non ci si possa accontentare di essere soltanto museologi o museografi. Ritengo che per potenziare la svolta narrativa e riflessiva dobbiamo interrompere la contrapposizione tra museologia e museografia, ovvero togliere la delega assegnata agli storici dell’arte per quanto riguarda la museologia delle collezioni, e agli architetti sul versante della composizione degli spazi che dovrebbero significare. Queste competenze dovrebbero entrambe essere incorporate nel ruolo del curatore di un allestimento, cioè di colui che è chiamato a governare la comunicazione espositiva mostrando pari consapevolezza e abilità in tema di ordinamento critico delle opere.

Va nella direzione di “far parlare il silenzio della storia” la mostra da me curata RISARCIMENTI [Storie di vita e di attesa] (Sala della Partecipazione Roma 17-19 giugno 2011; Sala Santa Rita Roma Capitale, 12/26 luglio 2012) pensata come mostra itinerante e ora divenuta un luogo stabile, denominato La stanza della Memoria, all’interno dei locali della sede dell’Esercito della salvezza, nel quartiere romano di San Lorenzo. Una installazione (PADIGLIONE, 2009PADIGLIONE, V. Installazione etnografica: un genere di comunicazione visiva. AM-Antropologia museale, Imola, anno 8, n. 23/24, p. 99-101, 2009.) che vuole configurarsi quale spazio conoscitivo ed espressivo sulle esistenze di quanti soggiornano presso l’Esercito; una stanza “dedicata” all’autobiografia e pensata come spazio protetto dove portare in dono storie personali e testimonianze individuali da consegnare alla memoria collettiva, come luogo di incontro dei narratori e di questi con chi ha voglia di ascoltare e conoscere. Uno spazio riflessivo non solo di aiuto. Un archivio, un centro di documentazione e di esposizione del quale gli stessi donatori di storie possono farsi attivi custodi di memorie e dove organizzare – intorno alle vite tribolate e alle tattiche di resilienza – incontri e inedite socialità.

L’esposizione ha inteso invitare i visitatori a riflettere sul valore della memoria personale e sociale, nella convinzione che dare visibilità e riconoscimento a desideri, storie ed esperienze oscurate, significhi espandere per tutti noi i confini della conoscenza e dell’immaginazione del possibile. Possiamo accostare all’idea di danno l’ingiusta sofferenza di patire drammi, tacitare aspirazioni, negare sogni, attendere invano doni? E possiamo immaginare che un risarcimento non equivalga solo a un indennizzo economico, ma possa significare riconoscimento culturale? La mostra RISARCIMENTI – che risponde ad una crescente istanza collettiva di social remembering e di equità all’interno di musei, o istituzioni “dedicate” alle memoria – è frutto di una ricerca etnografica e di un allestimento collaborativo vòlti a mettere in rapporto studenti della Facoltà di Medicina e Psicologia della “Sapienza” Università di Roma ed ospiti dell’Esercito della Salvezza che si relazionavano nel reciproco evitamento. Un obiettivo ambizioso: contrastare la “disattenzione civile”, quella modalità di rispetto formale che rende invisibili istituzioni e persone segnate dal disagio e da forte connotazione sociale; detto altrimenti: trasformare il tono anaffettivo che governa e divide distinte “intimità culturali” (HERZFELD, 2003HERZFELD, M. Intimità culturale: Antropologia e nazionalismo, Napoli: L’Ancora del Mediterraneo, 2003.) provocando, grazie ad inserzioni etnografiche, relazioni interessate, aperture, traduzioni, fusioni di orizzonti. In pratica “impicciarsi” delle esistenze, dei rimpianti e dei sogni altrui. I soggetti narranti sono persone appartenenti ad un orizzonte culturale che predilige l’oralità, depositari della straordinaria arte del narrare (SOBRERO, 2008SOBRERO, A. M. L’istinto di narrare: sei lezioni su antropologia e letteratura. Roma: Nuova Cultura, 2008.). Nella fondata convinzione che la narratività possa far guadagnare spessore e complessità alla memoria collettiva delle culture urbane di quartiere, il progetto si è proposto di restituire e ridonare voce sopratutto alle donne, agli anziani e ai marginali rendendoli consapevoli della ricchezza del loro mondo e della loro esperienza di soggetti sociali attraverso le proprie stesse narrazioni, mostrando nel contempo come la Storia ufficiale, pubblica, che esula dal domestico e dal quotidiano, sia stata per troppo tempo privata di una parte significativa ed importante dell’esperienza sociale.

RISARCIMENTI mette in valore il potere dei deboli di sovvertire egemonie, espone una collezione bizzarra di documenti personali: 600 bigliettini, 500 scatole di latta, 40 valigie diversamente riempite, 20 cuscini, 11 storie di vita in video, 11 trascrizioni di autobiografie, 12 ritratti fotografici. Scorrono i volti di eroi del quotidiano. Li vediamo raccontare – questa volta vincenti – di sofferenze, di cattiverie, di malasorte. Le “vite estreme” degli ospiti dell’Esercito della Salvezza giungono a noi trasformate dalla narrazione. I racconti intimi ci forzano al ricordo e all’immaginazione. Rivelano. Suggeriscono modi di governare l’esperienza. Sono interpretazioni che ridefiniscono trame, contesti, intenzionalità. Lungo il percorso espositivo video narrazioni autobiografiche tracciano esistenze, strade, luoghi. A tanti minuti foglietti studenti di Psicologia e ospiti dell’Esercito della Salvezza hanno consegnato le testimonianze dei loro desideri. Con cura li hanno riposti in vecchie scatole di latta e valigie. A cofanetti – usi a contenere dolci e poi a custodire foto, bottoni, ninnoli ed altri ricordi di famiglia – hanno affidato i Doni attesi, come messaggi lasciati in custodia al mare, non si sa bene a chi rivolti. Richieste di risarcimento, risposte necessarie al vivere, aspirazioni per non dover esser schiacciati dai rimpianti. Cuscini sospesi, poggiati su balaustre o affioranti dai muri, racchiudono impronte di volti e biglietti segreti. Narrano di notti vissute e immaginate, di sogni lieti e agitati, di cadute nel vuoto e di stravizi. Valigie consumate nel passare di mano in mano, di luogo in luogo, immobili, ferme nelle cantine umide o in polverosi soppalchi ad aspettare il viaggio che non arriva, a desiderare di partire verso una “patria elettiva”, un luogo dove potersi finalmente riconoscere. Ora anch’esse accolgono bigliettini e paesaggi dell’anima in miniatura. I testimoni delle autobiografie compaiono da protagonisti nelle foto di Federico Mozzano. Sorpresi nella postura semiseria di un’attesa con in mano il cofanetto regalo. Inquadrati dal basso verso l’alto, illuminati nei volti spessi di eventi. Ritratti densi e sfuggenti, etnografie visive che invitano lo spettatore ad instaurare un’irrisolta tensione tra appaesamento e defamiliarizzazione, tra ciò che si vede e ciò che viene da fantasticare, tra la levigatezza delle immagini e la porosità dell’esistenza.

Un altro esempio di museo narrativo è l’Etnomuseo Monti Lepini (PADIGLIONE, 2001PADIGLIONE, V. Ma chi mai aveva visto niente: il Novecento, una comunità, molti racconti. Catalogo EtnoMuseo Monti Lepini Roccagorga. Roma: Kappa, 2001.). Un’istituzione espositiva caratterizzata da narratività che non prende origine da una collezione, ma da una ricerca etnografica (pratica dialogica e polifonica) e da un progetto di museografia collaborativa realizzati a partire dall’esigenza della comunità di riflettere sulla propria identità. Ne è nato un percorso che pone interrogativi: «A cosa somiglia un’identità culturale? Cosa significa dire che noi di qui siamo diversi dagli altri? Essere e sentirsi di Roccagorga o di Roma a cosa può essere paragonato?» (PADIGLIONE, 2001PADIGLIONE, V. Ma chi mai aveva visto niente: il Novecento, una comunità, molti racconti. Catalogo EtnoMuseo Monti Lepini Roccagorga. Roma: Kappa, 2001., p. 44) e che stimola a ricercare risposte nelle narrazioni locali che la ricerca etnografica ha potuto documentare. La prima installazione mostra la carta geografica dove le persone di Roccagorga hanno studiato tra gli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un lacerto ma in essa – è evidente – non compare Roccagorga, non sono menzionati i Monti Lepini. Gli abitanti del paese studiavano su una carta che non li rappresentava! Su questa traccia narrativa abbiamo costruito la missione del museo come riscatto culturale, come spazio di conoscenza di identità negate e riappropriate. Il primo documento acquisito dal museo è stato il ritratto della comunità (1992) forte di oltre 3000 abitanti còlti in posa nella bella piazza barocca del paese: una fotografia che ha avuto successo ed è diventata “storica”. L’abbiamo realizzata invitando in piazza la società civile, richiedendo alle associazioni del paese di raccontarsi.

Lungo il percorso dell’EtnoMuseo Monti Lepini abbiamo attivato una dimensione micro-narrativa realizzando, in un apposito atelier – durato sette anni e aperto ai giovani del paese – una galleria di oltre 400 quadretti rappresentanti in forma di rebus e indovinelli altrettanti soprannomi di famiglia esistenti in paese. Ma forse la presenza narrativa in questo museo è del tutto rilevante nello spazio della Pasqua Rossa all’interno del quale abbiamo ricostruito le testimonianze di un eccidio avvenuto nel 1913. Le storie possono essere ascoltate all’interno di uno spazio scenico che simula la camera degli anziani testimoni visitati dai ricercatori; una contestualizzazione che rende la voce e il luogo perno centrale delle narrazioni, e non la piazza dove avvenne l’evento tragico.

Vorrei concludere gli esempi di narratività al centro di percorsi museali da me curati, con due musei dedicati alle storie e all’analisi del brigantaggio. Del Museo del Brigantaggio di Itri (PADIGLIONE, 2006PADIGLIONE, V. Storie contese e ragioni culturali: Catalogo Museo demoantropologico del brigantaggio. Itri (LT): Odisseo, 2006.) mi interessava segnalarvi l’incipit narrativo, un’installazione che si incontra prima di entrare e che ho voluto per introdurre il visitatore allo scopo del museo dedicato ad un fenomeno di grave e prolungata lacerazione sociale nella storia nazionale e locale. A terra compare un corpo formato da pietre locali, approssimativamente ricostruito. È il corpo del brigante, il quale ancora nel secolo decimonono, ritenuto non degno di sepoltura, subiva l’ingiuria di essere ucciso, smembrato e i resti dispersi fuori del paese. Missione conoscitiva ed etica del museo consiste nel rintracciare, ricostruire le fonti e i documenti di una storia negata, ricomponendo le sparse membra del brigante (il “corpus documentario”) raccolto da antropologi, storici e collezionisti. Nell’excipit del percorso museale questa storia trova compimento: un’installazione che rappresenta una tomba dove il corpo del brigante finalmente sepolto non inqueta più le nostre e le altrui notti.

Nell’ultimo esempio, il Museo del Brigantaggio di Cellere (PADIGLIONE; CARUSO, 2011PADIGLIONE, V.; CARUSO, V. Tiburzi è vivo e lotta insieme a noi: Catalogo del Museo del brigantaggio di Cellere, a cura di D’AURELI, M. Arcidosso: C&P Adver Effigi, 2011.) si dà conto di una operazione molto ardita in quanto la dimensione narrativa gioca un ruolo di primo piano. Il tessuto che connette le varie sezioni dell’allestimento è costituito dal reportage realizzato da un giornalista che, nella seconda metà dell’Ottocento, raccontò la storia di Tiburzi, allora brigante locale assunto a fama nazionale. Il reportage rappresenta una fonte narrativa che nel percorso museale viene smontata per far risaltare lo spirito del tempo, contenuti espliciti e impliciti, figure retoriche, allusioni e pregiudizi, ma anche per fornire il destro ad attualizzazioni sulla memoria degli attuali poeti e narratori locali. Insomma il reportage viene contestualizzato nel tempo e nella contemporaneità riflessiva. Viene immaginato un treno dentro un paesaggio di alberi per segnalare come nella interpretazione etnografica si possa parlare del brigantaggio come di una forma di “modernità zoppa”, o di una “attesa tradita di modernità”, perché quel tanto desiderato treno non passò mai di là congiungendo la costa ai paesi dell’interno del viterbese e della maremma laziale.

Accordando ancor di più enfasi alla figura letteraria dell’ucronia il percorso museale si conclude con l’immaginario del brigante Domenico Tiburzi, il modo in cui nel passato se ne parlava e il modo in cui nella contemporaneità viene ripreso. Mi interessava in questo senso attivare un dispositivo riflessivo partendo dalla sola fotografia disponibile che rappresenta il brigante, una immagine che mostra quest’ultimo come fosse vivo anche essendo di fatto già morto, come accadeva di frequente per dare più merito e gloria agli autori della cattura. Con una ardita azione cinematografica abbiamo riprodotto con apparentemente realismo l’immagine rappresentata dalla foto. È stato necessario un attore un po’ somigliante a Tiburzi e una credibile scenografia. La foto diventata un video e il soggetto si rianima, imbraccia il fucile e se ne va. L’effetto dosato con abilità tanto da riprodurre il passo delle prime macchine da ripresa (Tiburzi muore nel 1896) mette in scena un’ucronia: ci fa immaginare che la storia sarebbe potuta andare diversamente. È un esercizio molto interessante, che apre molte potenzialità sul piano museale.

Per me un museo narrativo può, con una certa forza, esplorare queste forme dell’immaginario non tanto per un gioco divertente, ma per riflettere sul modo in cui le persone possono accostarsi alle molte varianti possibili della storia che spesso, come nel caso di Tiburzi sono state immaginate da generazioni di storici locali. La storia controfattuale di Tiburzi evoca a suo modo la memoria divisa e conflittuale di tante storie, non solo di quelle del brigantaggio. L’ucronia al museo costituisce un’esperienza di storia virtuale che si configura come un possibile esercizio conoscitivo. È un modo narrativo che offre rappresentazione ad uno spazio immaginario dove anche i deboli esercitano qualche potere, dove aspirazioni di felicità e di equità possono esprimersi. Attraverso questo dispositivo letterario si accorda tensione contemporanea ad un passato trascurato che valorizza il collezionista e il ricercatore esposti nella visione di Benjamin (1966)BENJAMIN, W. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Einaudi, 1966. a dar «battaglia alla distrazione», indaffarati ad «intervenire su quei resti e su quegli scarti per far parlare il silenzio della storia» (SCHIAVONI, 1985SCHIAVONI, G. Extra-vagare. Walter Benjamin e la letteratura dimenticata. In: RUGI, G. (a cura di). Il sapere e lo scarto. Roma: Kappa, 1985. p. 51-62., p. 55).

Dobbiamo alzare molto la soglia critica su quello che comunichiamo; dobbiamo riflettere soprattutto sul modo in cui noi stiamo lasciando (ma forse sarebbe più giusto dire imponendo) una enorme quantità di memoria alle giovani generazioni, un patrimonio che – in qualche modo – rischia di togliere loro uno spazio vitale e di progetto. Ecco, mi interessa che noi – appassionati di patrimonio come siamo – potessimo riflettere e fossimo attenti a non saturare la loro storia con le nostre storie. Un tempo raccontavamo loro delle utopie; oggi rischiamo di saturare le loro vite con un sovraccarico di memoria, frutto della nostra sensibilità ma anche incertezza. Allora, a mio avviso, il nostro lavoro ci deve invitare a stare attenti, ad assumere una dimensione riflessiva, a fare delle azioni sostenibili, a produrre opere non perentorio e monolitiche ma parziali e anche facilmente smontabili e criticabili. Meglio, di certo, raccontare storie polifoniche e aperte.

Referências

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Publication Dates

  • Publication in this collection
    Aug 2016

History

  • Received
    27 July 2016
  • Accepted
    31 Oct 2016
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