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Antonio Gramsci e la Rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935)

ABSTRACT

Cogliendo l’occasione del centesimo anniversario della Rivoluzione russa e dell’ottantesimo della morte di Gramsci, il presente saggio si propone di contribuire alla contestualizzazione storica della sua personalità e del suo pensiero, seguendo un approccio che si è sensibilmente consolidato negli studi più recenti. Il tema del rapporto di Gramsci con il leninismo e il bolscevismo è stato dibattuto infinite volte, ma oggi, a un quarto di secolo di distanza dalla fine del comunismo in Europa e in Russia, possiamo liberarci da costrizioni definitorie e ideologiche. Un modo per farlo è ricostruire i vari fili che legano il percorso di Gramsci prima dell’arresto e poi nella prigionia con l’esperienza centrale della Rivoluzione russa. Questi fili sono intrecciati con tutta la sua biografia dal 1917 in avanti, al punto tale che non è facile isolare il tema stesso e fornire tracce interpretative capaci di t enere insieme commenti, percezioni, analisi, strategie, riflessioni. Ma è necessario farlo se intendiamo comprendere meglio il nesso tra l’azione politica e il pensiero. Si intende anzi suggerire che proprio isolando il tema della Rivoluzione russa possiamo vedere con maggiore precisione la formazione delle principali categorie del pensiero politico di Gramsci.

Parole chiave:
Gramsci; Rivoluzione russa; Stato sovietico

RESUMO

Na ocasião do centésimo aniversário da Revolução Russa e do octogésimo da morte de Gramsci, o presente ensaio se propõe a contribuir para a contextualização histórica da personalidade e do pensamento desse pensador, seguindo uma abordagem que se consolidou sensivelmente nos estudos mais recentes. O tema da relação de Gramsci com o leninismo e o bolchevismo foi debatido infinitas vezes, mas hoje, um quarto de século depois do fim do comunismo na Europa e na Rússia, podemos nos libertar de limitações definidoras e ideológicas. Um modo de fazê-lo é reconstruir os vários fios que ligam o percurso de Gramsci antes da prisão e depois, no cárcere, com a experiência central da Revolução Russa. Esses fios são entrelaçados com toda a sua biografia de 1917 em diante, a tal ponto que não é fácil isolar o próprio tema e fornecer pistas interpretativas capazes de unir comentários, percepções, análises, estratégias e reflexões. Mas é necessário fazê-lo se quisermos compreender melhor o nexo entre a ação política e o pensamento. Pretende-se sugerir que justamente isolando o tema da Revolução Russa podemos ver com mais precisão a formação das principais categorias do pensamento político de Gramsci.

Palavras-chave:
Gramci; Revolução Russa; Estado soviético

ABSTRACT

On the occasion of the 100th anniversary of the Russian Revolution and the 80th of Gramci’s death, the present essay aims at contributing to the historical contextualization of his personalty and his thought, following an approach clearly consolidated in the most recent studies. The subject of the relation between Gramci and Leninism and Bolchevism was debated infinite times, but today, a quarter of a century after the end of Communism in Europe and in Russia, we can free ourselves from definitory and ideological limitations. A way of doing it is reconstructing the many threads that linked Gramci’s trajectory before prison and after, in jail, with the central experience of the Russian Revolution. These threads are interlaced with his entire biography from 1917 on, to the point that it is not easy to isolete the subject itself and furnish interpretative clues capable of putting together comentaries, perceptions, analysis, strategies or reflexions. It has, nevertheless, to be done if we want to better understand the nexus between political action and thought. What we suggest is that isolating the theme of the Russian Revolution it will be possible to see the formation of the main cathegories of Gramci’s political thought.

Keywords:
Gramsci; Russian Revolution; Soviet State

L’IMPATTO DELLA RIVOLUZIONE E LA NASCITA DI UNA NUOVA STATUALITÀ (1917-1921)

La rivoluzione dei bolsceviki è materiata di ideologie più che di fatti. (Perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro Il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un’èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolsceviki rinnegano Carlo Marx, e affermano, con la testimonianza dell’azione esplicita, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono cosí ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato.1 1 Avanti!, 24/12/1917 in GRAMSCI, 2015, p.618.

E’ questo il celebre primo commento di Gramsci sulla Rivoluzione d’Ottobre, meno di un mese dopo la presa del potere dei bolscevichi. Punto di arrivo delle riflessioni da lui dedicate alla Russia dopo la Rivoluzione di febbraio, ma anche anticipazione di molte problematiche future, la ‘rivoluzione contro il Capitale’ è divenuta, retrospettivamente, una chiave di accesso alla biografia politica e intellettuale gramsciana, e persino alle motivazioni di un’intera generazione di giovani rivoluzionari che vivono il trauma della Grande Guerra (Eley, 2017ELEY, Geoff. Marxism and Socialist Revolution. In: PONS, Silvio; SMITH, Stephen (Org.) The Cambridge History of Communism. v.1, World Revolution and Socialism in One Country. Cambridge: Cambridge University Press, 2017.). In effetti, quelle parole di Gramsci continuano ad apparirci penetranti ed emblematiche. Penetranti perché colgono un nucleo essenziale del pensiero e dell’azione di Lenin e dei bolscevichi, che revisiona il marxismo della Seconda Internazionale. Emblematiche perchè costituiscono l’embrione di una cultura politica incentrata sul ruolo della soggettività, il fondamento di una visione anti-deterministica e anti-meccanicistica della storia. Sotto questo profilo, emerge subito l’intreccio tra l’impatto della rivoluzione e la riflessione sulle categorie della politica moderna, destinato a restare tratto distintivo di Gramsci per molti anni a venire.

Tale intreccio si arricchisce rapidamente di significati nel contesto della lotta politica e dei conflitti sociali in Italia e in Europa alla fine della guerra. Gramsci sviluppa insieme un’idealizzazione della rivoluzione russa, propria allora di molti giovani intellettuali socialisti e marxisti, e una lettura non convenzionale dei suoi caratteri, che si lega a una precisa visione delle conseguenze della Grande Guerra: l’emergere di una nuova coscienza sociale dalla mobilitazione totale, il salto di qualità della modernità politica quale partecipazione di massa alla vita pubblica, l’esigenza di una radicale riconfigurazione dell’ordine mondiale.

Per questa via, Gramsci legittima senza riserve l’operato di Lenin e dei bolscevichi, che vede non come utopisti ma realisti, organizzatori della coscienza di massa e portatori di ordine nel caos russo, aderendo all’idea e alla pratica della dittatura proletaria quale istituto garante della libertà. Egli non sembra sfiorato dal dubbio, presente tra i socialisti europei dell’epoca, che il potere del partito possa esautorare l’autogoverno consiliare. Pensa invece che i soviet e il partito bolscevico siano gli “organismi” integrati del nuovo ordine, capaci di creare nuove gerarchie fondate su una “autorità spirituale”, fonte di socializzazione e di una cittadinanza responsabile (Il Grido del Popolo, 22/06/1918. Avanti!, 25/07/1918). Così partecipa alla costruzione di un mito della rivoluzione. Ben consapevole della lezione di Sorel circa l’importanza di un mito fondativo nella moderna società di massa, quale fattore di organizzazione di una volontà collettiva, instaura una dialettica tra la narrazione metastorica della nascita di un “nuovo ordine” e la sua collocazione nel tempo storico del dopoguerra. Continua a vedere la rivoluzione come il frutto di un profondo rivolgimento della società, una combinazione tra la spontanea crescita della coscienza di massa e l’azione della soggettività politica. Identifica molto presto lo scenario del “nuovo ordine” con la figura dello Stato bolscevico, il suo monopolio della forza e il suo ceto dirigente. La centralità di questa visione storicamente determinata è stata forse sottovalutata dagli studiosi e merita invece un fuoco particolare per le sue implicazioni a lungo termine.2 2 La visione gramsciana dello Stato bolscevico è stata ben rimarcata, limitatamente al 1918-19, da RAPONE, 2011, pp. 375-379.

Alla fine della guerra mondiale e dopo lo scoppio della guerra civile in Russia, Gramsci sviluppa la propria visione dello Stato rivoluzionario, aggiungendo nuovi tasselli all’impianto delineato nella ‘rivoluzione contro il Capitale’. La Repubblica dei Soviet è per lui “uno Stato organico, costituzionalmente e storicamente giustificato”, la cui legittimazione risiede nella sua forza militare (Avanti!, 09/02/1919). L’instaurazione di una nuova statualità gli appare “l’essenziale fatto della Rivoluzione Russa” e Lenin “il più grande statista dell’Europa contemporanea” (L’Ordine Nuovo, 05/05 e 07/06/1919). Non appare sensato nè possibile separare la visione dello Stato bolscevico dall’ideologia consiliare che Gramsci sviluppa tramite la fondazione del movimento dell’Ordine Nuovo a Torino. L’esperienza consiliare trae alimento originale dal nuovo protagonismo operaio che in Germania e in Italia acquisisce una dimensione più ampia di quanto non avesse in Russia, ma che è inconcepibile nelle sue forme e dinamiche senza l’interazione con la Rivoluzione russa. Gli scritti di Gramsci stabiliscono una costante interdipendenza tra la politicizzazione delle masse, la rivoluzione bolscevica, la crisi dell’ordine liberale e capitalistico prebellico, il problema di ricostruire un ordine internazionale e il collasso degli assetti tradizionali della società italiana. L’idealizzazione della rivoluzione russa e l’analisi del dopoguerra europeo convivono tra loro. Tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, con il crollo degli Imperi centrali, si generalizza la percezione di una possibile ondata di sconvolgimenti rivoluzionari, che suscita speranze e paure. Il collasso del vecchio ordine europeo è una realtà, non un’immaginazione. L’idea che la rivoluzione in Europa e l’autogoverno dei lavoratori sia attuale, anche più che la costruzione di stati democratici, corrisponde alla percezione di molti nell’inverno 1918-19, nel contesto di una crescente radicalizzazione e mobilitazione di forze opposte. Gramsci non assume un “modello” di rivoluzione ma pensa che il sommovimento profondo provocato dalla guerra porti alla costruzione di un “nuovo ordine” che la Russia sta anticipando e rivelando.

Nella scia dell’Internazionale comunista, egli adotta una visione catastrofista del dopoguerra. Il quadro della vita internazionale gli apparire “una spaventosa bufera in un paesaggio di rovine”, la stessa “organizzazione della civiltà mondiale ... sgretolata nella sua totalità”, dato che “gli stati liberali metropolitani si disfanno all’interno” e “il sistema delle colonie e delle sfere d’influenza si sgretola” (L’Ordine Nuovo, 01/05/1919). Gramsci non considera un’autentica possibilità la ricostruzione dell’Europa borghese, in forme democratiche o autoritarie, che presenta come una prospettiva velleitaria e un tentativo contingente. Tuttavia, rifugge da visioni deterministiche e iscrive le proprie considerazioni nel campo delle possibilità storiche. Il suo accento cade prevalentemente sulla possibilità salvifica che “una classe dirigente nuova ... costruisca un ordine nuovo internazionale che unifichi la coscienza universale del mondo”. Sotto questo profilo, le forze rivoluzionarie e sovietiche in Russia, in Baviera, in Ungheria, e anche in Italia gli appaiono come l’unico argine contro la dissoluzione della società e la guerra civile europea. Il distacco dal mondo istituzionale e culturale del socialismo è radicale: i comunisti devono opporsi con la loro cultura politica, sapendo che “la crisi catastrofica in cui si dibatte la civiltà europea può essere arrestata solo dalla radicale sostituzione di un sistema di Consigli operai e contadini allo Stato democratico-parlamentare” (L’Ordine Nuovo, 02/08/1919).

Una simile ottica visionaria non impedisce analisi improntate al realismo, per lo più costruite su categorie geopolitiche. Egli si fa interprete di sentimenti trasversali nell’opinione politica europea e percepisce le figure di Lenin e Wilson come protagoniste di due visioni opposte dell’ordine postbellico, entrambe innovative, un’alternativa tra la pace tramite la rivoluzione socialista e la pace tramite la democrazia capitalistica (Avanti!, 05/07/1918; Il Grido del Popolo, 12/10/1918). L’opposizione tra Lenin e Wilson è, in realtà, una semplificazione che non rende conto a sufficienza della complessità politica e sociale delle opzioni in campo alla fine della guerra. Le traiettorie del leninismo e dello wilsonismo sono destinate entrambe, in modi diversi, a lasciare un’impronta fondamentale ma anche a declinare precocemente nella contingenza del dopoguerra.

Tuttavia, tale chiave coglie l’irrompere sulla scena di forze destinate a modificare comunque la politica mondiale in un modo irreversibile. Non è una forzatura affermare che gli scritti gramsciani di questi anni mostrano una visione globale, sebbene concentrata sull’Europa. Gramsci intravede l’emergere di un’egemonia mondiale angloamericana dopo il crollo degli imperi centrali e mette a tema la crisi dello stato-nazione europeo, nella quale inquadra la crisi dello Stato italiano (Avanti!, 10/05 e 18/07/1919). Coglie le incongruenze geopolitiche della pace di Versailles, che non riguardano soltanto la Germania, ma l’intero assetto dell’Europa orientale e della Russia (L’Ordine Nuovo, 15/05/1919).

In un simile contesto, la tenuta del potere bolscevico nella guerra civile e l’ondata di violenza che scuote l’Europa in tempo di pace lo spingono a spostare gradualmente il fuoco dal tema della coscienza sociale e dell’iniziativa dal basso alla nozione dei rapporti di forza e al consolidamento di un nuovo ordine politico. Come è stato notato, queste rappresentano “due correnti di fondo” del suo pensiero politico, che intende la rivoluzione socialista sia come automobilitazione delle masse e liberazione individuale, sia come coesione e ordinamento del corpo sociale, anzitutto tramite la figura e l’autorità dello Stato (Rapone, 2011RAPONE, Leonardo. Cinque anni che paiono secoli: Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919). Roma: Carocci, 2011., p.409). Egli rivolge crescente attenzione al secondo dei due poli quanto più si fondono ai suoi occhi l’attualità della rivoluzione in Europa e l’emergere del potere bolscevico dalla guerra civile in Russia.

Gramsci non si sofferma sul paradosso principale della rivoluzione russa: aver compiuto ciò che Lenin e gli altri leader bolscevichi ritenevano impossibile, sopravvivere malgrado l’isolamento internazionale, difendere con successo il loro potere nella guerra civile pur in mancanza della rivoluzione in Europa. Le conseguenze di un simile paradosso risulteranno evidenti soltanto più tardi. Egli delinea piuttosto l’idea che la sconfitta delle rivoluzioni nell’Europa centrale implichi l’abbandono della nozione di una “rivoluzione in due tempi” sull’esempio di quella realizzatasi in Russia tra il febbraio e l’ottobre 1917 (L’Ordine Nuovo, 03/07/1920). E’ un ripensamento ancora parziale e incompiuto, che affida le sorti rivoluzionarie alla costruzione di forti partiti comunisti in Europa, secondo il progetto annunciato dal Comintern. Così la prospettiva di una rivoluzione europea che non è destinata a ricalcare l’esempio russo rafforza e non indebolisce il nesso con il “partito mondiale della rivoluzione” a Mosca. Ancor più nel contesto della sconfitta subita dalle lotte operaie in Italia nella primavera-estate 1920, già visibile prima del loro culmine nell’occupazione delle fabbriche in settembre (Tasca, 1973TASCA, Angelo. I primi dieci anni del PCI. Roma-Bari: Laterza, 1973., pp. 113-114). La guerra russo-polacca e il suo esito consolidano questo passaggio. L’obiettivo della presa di Varsavia, l’aspettativa di un’insurrezione proletaria in Polonia e in Germania, la speranza di esportare la rivoluzione “sulla punta delle baionette” accendono il secondo Congresso del Comintern tra luglio e agosto. Gramsci nutre le medesime speranze. Egli fa propria l’idea che la Russia sovietica sia una “potenza mondiale”, una visione espressa prima della clamorosa sconfitta dell’Armata Rossa (L’Ordine Nuovo, 14/08/1920). Tuttavia questa nozione si applica alla forza reale manifestata dallo Stato costruito dai bolscevichi e alla prospettiva del suo futuro dispiegarsi su scala mondiale, indipendentemente dalle sorti della guerra in Polonia. In questo senso, la consonanza di Gramsci con Lenin è particolarmente significativa, perché non è confinata all’illusione rivoluzionaria che si brucia repentinamente e guarda oltre la contingenza strategica dell’estate 1920. La presenza dello Stato bolscevico non appare ora decisiva soltanto per la sua costituzione interna e per il suo esempio rivoluzionario, ma per la sua proiezione e influenza nel sistema internazionale degli stati e nel potere mondiale. L’opposizione Lenin-Wilson è tramontata e nessuna delle due figure rispecchia retrospettivamente i significati e le tendenze dell’immediato dopoguerra. Ma le forze di cambiamento messe in moto dalla Grande Guerra sono ugualmente all’opera. Il progetto leninista resta attuale tramite la mutazione della guerra civile e segna il tempo storico del dopoguerra.

LO STATO SOVIETICO, IL MOVIMENTO COMUNISTA E L’EGEMONIA RIVOLUZIONARIA (1922-1926)

A partire dalla nascita del PCd’I (gennaio 1921), l’esperienza di Gramsci si sposta dal terreno dell’intervento militante e della creazione di cultura politica a quello dell’azione rivolta alla costruzione del partito. Tale azione rivelerà in diversi momenti l’influenza dei paradigmi di lettura originari e aprirà squarci sull’accumulo di esperienze anche sotto il profilo analitico, destinate a recuperare, affinare e anche modificare profondamente quei paradigmi. Si sovrappongono ora due diversi registri, quello della strategia del movimento comunista e del PCd’I, e quello degli sviluppi della Russia sovietica, che entrano in una stretta interazione tra loro. L’avvento del fascismo in Italia, le convulsioni della ricostruzione europea e la “costruzione del socialismo” in Russia divengono gli scenari essenziali entro i quali si svolgono le analisi politiche e strategiche gramsciane. Nel periodo trascorso a Mosca nel 1922-23, Gramsci vive per diretta esperienza il nesso tra il consolidamento del governo bolscevico dopo la guerra civile e la riformulazione di una strategia del movimento comunista, per molti aspetti stridente con le convinzioni da lui maturate sino a quel momento. Prende coscienza di tre decisivi passaggi che riflettono la fine della fase di movimento apertasi nell’ultimo anno della guerra mondiale e l’isolamento della Rivoluzione russa: il rigido vincolo dell’unità del gruppo dirigente imposto da Lenin come condizione di esistenza della “dittatura proletaria”; il discorso sull’alleanza tra operai e contadini collegato alla NEP come condizione di una base sociale della costruzione socialista; la strategia del “fronte unico” come ridefinizione strategica dopo la sconfitta della rivoluzione europea. Solo dopo il periodo moscovita emergono faticosamente un’idea processuale della rivoluzione e un’analisi del fascismo quale fenomeno non effimero di riorganizzazione del potere nella società di massa, ispirata dal Comintern (anzitutto da Bucharin) all’intero gruppo dirigente italiano, ancora attardato nei suoi sogni rivoluzionari.

In questa evoluzione, il momento di svolta è rappresentato dal fallimento del tentativo rivoluzionario dell’ottobre 1923 in Germania e dalla morte di Lenin. L’ottobre tedesco mostra come la costruzione di partiti comunisti organizzati sia la condizione necessaria ma non sufficiente per la rivoluzione in Europa. Gramsci accetta l’interpretazione del fallimento formulata dai dirigenti del Comintern, che addossano tutta la responsabilità ai comunisti tedeschi. Tuttavia non si limita a questo e formula da Vienna, nel febbraio 1924, il primo spunto di una visione differenziata della rivoluzione in occidente, scrivendo che

la determinazione, che in Russia era diretta e lanciava le masse nelle strade all’assalto rivoluzionario, nell’Europa centrale e occidentale si complica per tutte quelle superstrutture politiche, create dal più grande sviluppo del capitalismo, rende più lenta e più prudente l’azione della massa e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica più complessa e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo tra il marzo e l’ottobre 1917. (Togliatti, 1974TOGLIATTI, Palmiro. La formazione del gruppo dirigente del partito comunista italiano nel 1923-1924. Roma: Editori Riuniti, 1974., p.197)

E’ questa una novità del suo discorso politico e un elemento di riflessione unico nel panorama del comunismo europeo, non soltanto nel confronto con Bordiga. Le parole impiegate da Gramsci sono più ricche di implicazioni della critica alla rivoluzione “in due tempi” formulata nel 1920, perché riconoscono la complessità politica delle società europee e legano i caratteri della Rivoluzione russa a una contingenza storica. Vale la pena osservare che una simile affermazione precede di poco la prima autentica analisi di Gramsci, nel frattempo rientrato in Italia, sul fascismo come un originale fenomeno di massa (Gramsci, 1971GRAMSCI, Antonio. La costruzione del partito comunista 1923-26. Torino: Einaudi, 1971., pp. 33-34). In questo stesso passaggio Gramsci insiste sull’incapacità dei comunisti italiani di ottenere un seguito di massa tra gli operai al momento della scissione di Livorno malgrado “l’autorità e il prestigio” dell’Internazionale comunista, un esito giudicato impietosamente come una sconfitta: “fummo sconfitti, perché la maggioranza del proletariato organizzato politicamente ci diede torto ... Fummo - bisogna dirlo - travolti dagli avvenimenti; fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana” (L’Ordine Nuovo, 15/03/1924). Gramsci impiega parole pesanti che torneranno l’anno dopo nelle Tesi di Lione e che lasceranno il segno sulla sua traiettoria intellettuale e politica.

Nel contempo, il suo elogio funebre ripresenta appieno l’identificazione, compiuta subito dopo la rivoluzione, tra la leadership leniniana e la dittatura proletaria quale fattore di ordine e di autogoverno delle masse: Lenin è “l’esponente e l’ultimo più individualizzato momento, di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intero”. Nel suo lascito, Gramsci pone in primo piano “l’idea dell’egemonia del proletariato ... concepita storicamente e concretamente” che si è espressa nella NEP e nella formula dell’alleanza con i contadini poveri (L’Ordine Nuovo, 15/03/1924). Egli impiega la nozione di egemonia seguendo l’accezione prevalente nel bolscevismo dei primi anni Venti, che ha potuto apprendere durante il suo soggiorno a Mosca. Più ancora che nel linguaggio di Lenin, tale nozione è esplicita nei discorsi di Zinov’ev, il capo del Comintern. Già nel 1922 questi invoca l’esigenza che la classe operaia al potere, in un paese a prevalenza contadina e accerchiato del capitalismo, acquisisca una visione “statuale generale” distaccandosi dai suoi “interessi corporativi” per esercitare il proprio ruolo di “egemone” e di “guida della rivoluzione su scala nazionale e internazionale”.3 3 Protokoly Odinadcatogo s’ezda RKP(b) Mart’-Aprel’ 1922g., Moskva, Partizdat CK VKP(b), 1936, p. 410. Nel 1923 lo stesso Zinov’ev eleva la nozione di egemonia a categoria principale del bolscevismo, con un buona dose di approssimazione e propagandismo, indicandone come un esempio anche la costruzione dell’Armata Rossa (Brandist, 2015BRANDIST, Craig. The Dimensions of Hegemony. Language, Culture and Politics in Revolutionary Russia. Chicago: Haymarket Books, 2015., p.101). I termini di “egemonia” e “direzione” appaiono largamente sovrapponibili. In ogni caso, si istituisce una continuità tra il ruolo delle alleanze sociali prima della rivoluzione e dopo la rivoluzione, che serve da insegnamento per tutti i comunisti, a cominciare da quelli dei paesi di recente industrializzazione come l’Italia. Filtrata dall’esperienza moscovita, la combinazione gramsciana tra coscienza sociale, soggettività politica e organizzazione statuale si manifesta così in una forma diversa rispetto al “biennio rosso” del 1919-20. E tuttavia, egli mantiene ferma l’interdipendenza tra la statualità rivoluzionaria in Russia e la rivoluzione in Europa, tematizzata allora in chiave di influenza, esempio e potenza mondiale. La differenziazione tra Russia e Occidente non significa smarrire il senso dell’interdipendenza degli scenari rivoluzionari e dei processi mondiali. Per Gramsci non esiste una dimensione separata della rivoluzione in occidente, ma piuttosto un persistente problema di “traducibilità” della rivoluzione bolscevica sul piano nazionale ed europeo. Proprio per questo, la morte di Lenin apre un interrogativo drammatico sulla capacità del gruppo dirigente russo e del “partito mondiale” rivoluzionario di preservare il proprio disegno.

Gramsci è consapevole delle divisioni del gruppo dirigente bolscevico che si delineano tra la fine del 1923 e l’inizio del 1924, specie attorno al regime interno di partito e all’esito dell’ottobre tedesco, ma in una situazione ancora fluida. La questione riemerge clamorosamente nell’autunno 1924 a seguito del celebre scritto di Trockij su Le lezioni dell’ottobre, destinato a suscitare passioni e interrogativi ben più sostanziali e angosciosi. La lotta tra i successori di Lenin presenta una duplice implicazione per tutti i comunisti dell’epoca: una spaccatura che attraversa in modo trasversale l’intero movimento comunista, con conseguenze imprevedibili; uno scollamento tra la “costruzione del socialismo” in Unione Sovietica e il destino della rivoluzione mondiale. Come tutti, Gramsci segue una logica di schieramento. Ma non la segue fino alle estreme conseguenze e anzi vi oppone una vigilanza critica. Non è difficile vedere gli elementi politici e intellettuali che lo portano a difendere posizioni non conformiste, mostrando un rapporto peculiare con l’eredità di Lenin. Egli si preoccupa anzitutto del pericolo costituito dal fatto che “la mancanza di unità nel partito in un paese in cui vi è un solo partito, scinde lo Stato”.4 4 Relazione al Comitato centrale del PCd’I, febbraio 1925, in CPC, p. 473. Una constatazione critica verso l’opposizione trockista ma anche verso la maggioranza staliniana del partito sovietico, che bollando l’opposizione come un corpo estraneo al Comitato Centrale costruisce un’unità fittizia del partito. Ma anche una constatazione slegata dalla contingenza e molto radicata nella visione gramsciana della “dittatura proletaria” quale Stato organico, sviluppata sin dagli anni della guerra civile. Nel contempo, si propone di mantenere aperto un discorso sull’attualità della rivoluzione e diffida di analisi strumentali al conflitto politico. Perciò accoglie tiepidamente la nozione della “stabilizzazione relativa” del capitalismo che campeggia nelle analisi di Stalin e Bucharin alla metà degli anni Venti e che si lega alla teoria del “socialismo in un solo paese”. Benchè il suo linguaggio sia largamente bolscevizzato, egli è insofferente verso le formule onnicomprensive coniate dal Comintern sul piano analitico. Così delinea un’analisi differenziata dei paesi capitalistici europei lungo uno schema centro-periferia, che non è dato riscontrare nelle concezioni cominterniste e riecheggia piuttosto le sue analisi geopolitiche risalenti ad anni prima.5 5 Relazione al Comitato centrale del PCd’I, agosto 1926, in APC. In sintesi, Gramsci aderisce con convinzione all’idea della “costruzione del socialismo” ma la sua visione politica non ricalca fedelmente le coordinate del dopo Lenin.

La celebre lettera del 14 ottobre 1926 al Comitato centrale del partito sovietico costituisce il momento nel quale la visione gramsciana si cristallizza prima dell’arresto. La sua trama si articola su due punti: primo, il nesso tra “socialismo in un solo paese” e rivoluzione mondiale non è risolto una volta per tutte, ma va definito di volta in volta alla luce degli interessi statali dell’URSS, del ruolo svolto dal partito russo nel movimento comunista internazionale, dell’analisi delle realtà nazionali nel mondo capitalistico; secondo, la condizione per assolvere questo compito è rafforzare, e non indebolire, l’unità del gruppo dirigente russo, tanto più nelle condizioni della NEP e della “alleanza” tra operai e contadini. Il pericolo di una “scissione” paventato sin dall’inizio della lettera è perciò collegato strettamente al rischio di perdere il ruolo di “propulsione rivoluzionaria” svolto dallo Stato sovietico. Pur sostenendo politicamente la maggioranza del partito russo, Gramsci indirizza ai suoi dirigenti l’ammonimento più severo: quello di “annullare la funzione dirigente” propria del partito russo nel “partito mondiale” e di “perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse”. Data la sua visione dello Stato rivoluzionario, il tema dell’unità non è per lui un dato interno alle logiche del partito russo, ma un problema internazionale, decisivo per i militanti comunisti e per le “grandi masse lavoratrici”. Nel rischio di una scissione egli vede messi in discussione “il principio e la pratica dell’egemonia del proletariato” e “i rapporti fondamentali di alleanza tra operai e contadini”, vale a dire “i pilastri dello Stato operaio e della Rivoluzione”. La sua critica all’opposizione trockista è incentrata sull’argomento fondamentale che essa abbia tradito l’idea che il proletariato “non può mantenere la sua egemonia e la sua dittatura” senza sacrificare i propri “interessi corporativi” e resusciti perciò “tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo”, ostacolo principale all’ “organizzarsi in classe dirigente” del proletariato occidentale. Ma la sua preoccupazione è che la maggioranza staliniana intenda “stravincere” e favorire una scissione che produrrebbe danni “irreparabili e mortali”.6 6 Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, doc. 42, DANIELE, 1999, pp. 404-412. Replicando poco dopo a Togliatti, - che come è noto, da Mosca giudica un errore politico la critica gramsciana e invoca un’adesione incondizionata alla linea della maggioranza del partito bolscevico - Gramsci ripete con fermezza che il problema sollevato nella lettera investe “l’egemonia del prolet[ariato]” e la tenuta dello Stato in Russia, la sua percezione tra le masse lavoratrici, quindi il senso e la missione dei comunisti. Il suo punto essenziale è che il ruolo dell’Unione Sovietica come “l’organizzatore di masse più potente che sia mai apparso nella storia” non deve essere considerato “ormai acquisito in forma stabile e decisiva” perché invece “esso è sempre instabile”. Così si esprime Gramsci:

oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è più il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente, la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo. L’autorità del P[artito] è legata a questa persuasione, che non può essere inculcata nelle grandi masse con metodi di pedagogia scolastica, ma solo di pedagogia rivoluzionaria, cioè solo dal fatto politico che il P[artito] R[usso] nel suo complesso è persuaso e lotta unitariamente.7 7 Ivi, doc. 49, pp. 435-439.

Questa presa di posizione è atipica nel contesto del comunismo occidentale, come gli storici hanno sempre saputo. Ma oggi vediamo meglio come essa implichi un nesso essenziale tra la questione della rivoluzione in occidente e la questione dell’evoluzione dell’URSS, che svilupperà negli anni del carcere (Pons, 2008PONS, Silvio. Il gruppo dirigente del PCI e la “questione russa” (1924-26). In: GIASI, Francesco (Org.) Gramsci nel suo tempo. Roma: Carocci, 2008. v.1, p.403-430., p.403-430). Gramsci continua a vedere la figura del partito bolscevico come partito di governo e collante di uno Stato proletario, non diversamente da quanto aveva fatto sin dagli anni della guerra civile. Il suo appello presenta però un’implicazione molto significativa. Egli enfatizza l’importanza della risorsa simbolica e politica costituita dall’autorità dello Stato e dalla credibilità della “costruzione del socialismo” sul piano internazionale non meno che nell’Unione Sovietica. Stabilisce così un nesso tra egemonia e autorità come un obiettivo politico da conquistare e non come un dato acquisito. Un simile nesso si distingue dal linguaggio bolscevico, che fa cadere l’accento sul momento della direzione, e anche dal precedente impiego di quel termine fatto dallo stesso Gramsci, che era di tipo convenzionale (egemonia come supremazia) o riferito alle alleanze di classe nella scia della concezione leninista della NEP. Si delinea un’accezione specifica del concetto e una centralità culturale che esso non aveva mai rivestito nel bolscevismo, malgrado la sua ricorrenza lessicale (Di Biagio, 2008DI BIAGIO, Anna. Egemonia leninista, egemonia gramsciana. In: GIASI, Francesco (Org.) Gramsci nel suo tempo. Roma: Carocci, 2008. v.1, p.379-402., p.379-402). Le sue conseguenze politiche restano inespresse, quelle intellettuali vengono sviluppate nei Quaderni del carcere.

LO SGUARDO DAL CARCERE: “GUERRA DI POSIZIONE” E “RIVOLUZIONE PASSIVA” (1929-1935)

Nel carcere Gramsci non si distaccherà più dai principi enunciati nelle lettere del 1926 e svilupperà gli interrogativi in esse impliciti. Molte note dei Quaderni costituiscono un solitario sforzo intellettuale di venire a capo dell’evoluzione conosciuta dall’URSS e dal Comintern, tornando a pensare le proprie fonti originarie e collocandole in un contesto analitico che abbraccia il mondo del dopoguerra. Nel periodo compreso tra il suo arresto (ottobre 1926) e la progettazione della scrittura (febbraio 1929), Trockij e l’opposizione combattono la loro ultima battaglia e vengono condannati ed espulsi dal partito, il gruppo dirigente staliniano vara violente “misure eccezionali” nelle campagne, il Comintern adotta una linea “di sinistra” al VI Congresso. La scrittura di Gramsci inizia a prendere corpo, tra il 1929 e il 1930, dopo che il Comintern ha compiuto la svolta estremista riassunta nelle parole d’ordine dello scontro “classe contro classe” e del “socialfascismo”, che egli giudica un errore pagando il prezzo di una seria emarginazione nei rapporti con il partito italiano. Così la condizione di prigioniero non è l’unico impedimento e l’unica fonte di solitudine nel rapporto con il mondo esterno. La dimensione che gli appartiene non è però quella del distacco o del disincanto, semmai quella del dissenso e della revisione.

L’elemento primario di analisi è costituito dal parallelo stabilito tra la rivoluzione francese e la rivoluzione russa. L’analogia riguarda in prima istanza il rapporto città-campagna, la forma politica della dittatura, la funzione nazionale e modernizzatrice (Q1, 43; Q3, 337). Ma si espande poi a metafora per la comprensione del ruolo e dell’influenza mondiale della Rivoluzione Russa nel dopoguerra, divenendo in tal modo una fonte di giudizio critico nei Quaderni. La riflessione di Gramsci si appunta sulla rivoluzione russa e la sua eredità anzitutto in alcune note coeve (tardo 1930 - inizio 1931) che compongono un quadro integrato o integrabile. Gramsci pensa retrospettivamente i caratteri della rivoluzione e colloca la “costruzione del socialismo” nella modernità degli anni Venti. Come è noto, egli considera la rivoluzione del 1917 come l’ultimo episodio della “guerra manovrata” e della “tattica d’assalto” al potere (Q7, 860). Sotto il profilo della strategia politica, il passaggio dalla “guerra manovrata” alla “guerra di posizione” o “di assedio”, gli appare perciò “la quistione di teoria politica la più importante, posta dal dopo guerra” (Q6, 801). In questo periodo, Gramsci legge l’autobiografia di Trockij e fa di lui l’oggetto esplicito della critica che anima la propria riflessione retrospettiva. Trockij è “il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta” e l’autore della dottrina della “rivoluzione permanente”, che gli appare “il riflesso politico della teoria della guerra manovrata” (Q6, 801-2; Q7, 866). Gramsci contrappone Lenin a Trockij: il primo “profondamente nazionale e profondamente europeo”, laddove il secondo è invece “un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo”. A suo giudizio, soltanto Lenin aveva capito la necessità di passare dalla guerra manovrata alla guerra di posizione, “la sola possibile in occidente”, ma non aveva avuto il tempo per sviluppare la formula del “fronte unico”. Le implicazioni di una simile critica si estendono perciò oltre la figura di Trockij e si riferiscono all’intera esperienza rivoluzionaria del dopoguerra. Il compito di passare alla “guerra di posizione”, egli scrive, implicava “un’accurata ricognizione di carattere nazionale” perché “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto ... Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte” (Q7, 866). I Quaderni riprendono qui la visione differenziata dell’occidente dalla Russia formulata la prima volta nel febbraio 1924, che ora è inserita nella concezione gramsciana della “guerra di posizione”.

Ciò che preme osservare è come Gramsci, mentre analizza il nocciolo della fallita vicenda rivoluzionaria del dopoguerra, rivolga simultaneamente la propria attenzione all’esperienza sovietica. Ancora una volta è Trockij l’oggetto della critica, in questo caso quale voce principale del progetto di industrializzazione realizzata con metodi coercitivi. Per Gramsci tale tendenza, se non fosse stata sconfitta, sarebbe sboccata in “una forma di bonapartismo” (Q4, 489). Ma il pericolo insito nell’industrialismo non è soltanto costituito dal bonapartismo bensì anche dall’ “egoismo economico-corporativo”, l’incapacità del nuovo “raggruppamento egemone” di compiere responsabilmente auto-limitazioni e sacrifici per mantenere in vita gli equilibri sociali e le prospettive di trasformazione socialista (Q4, 461). Un tema chiaramente ripreso dalla lettera dell’ottobre 1926, che ora riemerge dopo la crisi terminale della NEP e nel contesto della modernizzazione che si sta realizzando sotto Stalin. Il punto di vista espresso da Gramsci è che la modernizzazione vada compresa entro gli standard produttivi e organizzativi della modernità globale, a suo giudizio rappresentati dall’americanismo (perciò riconosce che l’interesse di Trockij per l’americanismo muoveva da “giuste preoccupazioni” anche se le sue soluzioni erano “errate”) (Q4, 489). Ma essa va anche valutata all’insegna di un preciso compito storico, quello di costruire un nuovo ordine postrivoluzionario. I rappresentanti del “nuovo ordine in gestazione”, che hanno come riferimento “il mondo della produzione” - egli scrive - “per odio ‘razionalistico’ al vecchio diffondono utopie e piani cervellotici”. E tuttavia, è convinto che “lo sviluppo delle forze economiche delle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare” e “permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche intellettuale” (Q7, 863). In altre parole, egli si chiede se in quel preciso momento storico i costruttori del “nuovo ordine” siano all’altezza di esercitare una concreta egemonia politica ed economica. La sua fede nella “costruzione del socialismo” non è cieca, anche se continua a credere in tale prospettiva.

In modi diversi, i temi sin qui trattati sono destinati a tornare e a subire revisioni nelle note più tarde dei Quaderni, scritte tra la metà del 1932 e l’inizio del 1935. Revisioni tanto più significative in quanto si possono decodificare senza difficoltà come un bilancio sostanzialmente negativo della grande trasformazione sovietica sotto Stalin. Tale bilancio non riguarda le realizzazioni economiche del piano quinquennale né la costruzione della potenza sovietica, ma riguarda invece il tema dello Stato e delle sovrastrutture politiche. E’ questo l’autentico filo rosso che percorre il suo pensiero dagli scritti giovanili sul nascente Stato bolscevico come “Stato organico” negli anni della guerra civile alle note appuntate in carcere nell’epoca della “rivoluzione dall’alto” di Stalin, ma queste ultime rivelano anche un cambiamento radicale. C’è anzi da chiedersi se la stessa messa a punto delle principali categorie politiche gramsciane tra il 1932 e il 1933 non vada messa in rapporto con gli esiti visibili della “rivoluzione dall’alto” in Unione Sovietica. Le fonti in possesso di Gramsci sono limitate ma sufficienti a mostrare il progetto di onnipotenza dello Stato, il dominio della propaganda, il peso delle misure amministrative e dei corpi burocratici, la militarizzazione delle relazioni sociali (anzitutto quelle tra città e campagna) nell’Unione Sovietica dei primi anni Trenta. Il suo interrogativo fondamentale diviene se sia davvero possibile sviluppare risorse egemoniche in un simile scenario. E’ visibile uno slittamento dal tema dell’industrialismo e della modernità produttivistica al tema del regime politico di massa, mentre si accentua l’interrogativo sul ruolo dell’Unione Sovietica nell’ordine mondiale del dopoguerra.

Un segno inequivocabile di tale slittamento è costituito dalla nota dell’aprile 1932, nella quale Gramsci riconosce che un periodo di “statolatria” appare “necessario e anzi opportuno” quando i gruppi subalterni si affacciano a una “vita statale autonoma”, ma sottolinea che al fine di sviluppare “nuove forme di vita statale” tale “statolatria” non deve divenire un dato permanente né trasformarsi in “fanatismo teorico” (Q8, 1020). E’ difficile non pensare che qui Gramsci esprima la sua visione retrospettiva sull’evoluzione conosciuta dalla “dittatura proletaria” nel decennio precedente e sulle conseguenze della rottura tra i successori di Lenin, che sembra indicare non più nella paventata ‘scissione’ dello Stato ma nell’emersione di un cieco culto dello Stato. Gramsci è ormai molto lontano dalla sua visione giovanile della “dittatura proletaria” come transizione verso un nuovo ordine e come condizione di libertà. Giunge anzi a rovesciare quella prospettiva, alludendo al pericolo che la dittatura postrivoluzionaria divenga un fine in sè, un autoritarismo privo di egemonia destinato a riprodurre violenza e dogmatismo. Un ostacolo e una negazione della nuova relazione tra governanti e governati che costituisce, nella sua concezione, la cartina di tornasole della “costruzione del socialismo”.

La scrittura vigilata e amletica di Gramsci si fa più trasparente in alcune note risalenti al febbraio 1933 o poco dopo, che presentano una consonanza tematica insieme alla coincidenza temporale. Egli affronta esplicitamente, caso unico nei Quaderni, il tema del “socialismo in un solo paese” - la prospettiva staliniana che egli stesso aveva accolto nel decennio precedente e che ora viene presentata in Unione Sovietica come un fatto compiuto. Ripensa il conflitto tra Trockij e Stalin “come interprete del movimento maggioritario”, cioè del bolscevismo, dal punto di vista dell’egemonia. Questa può dirsi garantita soltanto dalla corretta combinazione degli elementi nazionale e internazionale. Perciò “le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione”. Per Gramsci, l’originalità del bolscevismo prerivoluzionario è stata proprio quella di “depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico” per dargli “un contenuto di politica realistica”. Tuttavia, Gramsci attribuisce a Trockij e a Stalin le medesime deficienze. L’attuale fase del socialismo, scrive, è caratterizzata da un “napoleonismo” anacronistico, da “una forma moderna del vecchio meccanicismo” e da una “teoria generale della rivoluzione permanente” (Q14, 1730). Scritte alla fine del primo piano quinquennale, queste parole appaiono un codice che rimanda alla dittatura staliniana, al carattere teleologico della pianificazione sovietica e all’ultraradicalismo della strategia del Comintern. E’ lecito pensare che Gramsci impieghi tale codice per evidenziare l’incapacità dei successori di Lenin di comprendere la “guerra di posizione” e i limiti mostrati dalla “costruzione del socialismo” in termini di egemonia.

Contemporaneamente, Gramsci scrive sulla “rivoluzione passiva” - cioè la messa in atto di cambiamenti storici necessari da parte delle stesse classi dominanti, in grado di contenere le forze autenticamente rivoluzionarie. Il tema compare nei Quaderni molto presto come un paradigma interpretativo della storia italiana estendibile agli altri stati dell’Europa moderna, ma soltanto nel 1932-33 il suo significato si configura come una categoria analitica fondamentale (Vacca, 2017VACCA, Giuseppe. Modernità alternative: Il Novecento di Antonio Gramsci. Torino: Einaudi, 2017., p.95-99). E’ essenziale rilevare la coincidenza temporale tra le note che rimandano al “socialismo in un solo paese” sotto Stalin e quelle che estendono la nozione di “rivoluzione passiva” a categoria essenziale per capire il dopoguerra. Tale estensione della “rivoluzione passiva” si verifica tramite il legame con la nozione della “guerra di posizione”, che Gramsci adotta come un criterio di periodizzazione storica in una nota del Quaderno 10 scritta nel maggio 1932:

nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo. (Q10, 1229)

La “guerra di movimento” del Novecento, scandita dall’impulso della rivoluzione comunista in Russia e in Europa, presenta perciò una durata molto breve rispetto a quella del secolo precedente. La sua origine è nella Rivoluzione di Febbraio e la sua fine non è datata all’Ottobre tedesco del 1923 ma addirittura alla cosiddetta “azione di marzo” del 1921 in Germania.

Tuttavia, le nozioni di “guerra di posizione” e di “rivoluzione passiva” presentano implicazioni molto più ampie della strategia del comunismo internazionale. Sempre nel Quaderno 10, Gramsci integra una delle sue note iniziali sul nesso tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri stati moderni europei. L’interrogativo originario è se il modello di cambiamento senza rivoluzione messo in atto dalla Restaurazione del XIX secolo possa ripetersi nella storia europea e mondiale anche dopo la Grande Guerra. Inizialmente lo aveva escluso (Q1, 134). Ora si chiede invece se “almeno in parte si possono avere sviluppi simili, sotto forma di avvento di economie programmatiche”. In altre parole, Gramsci allude all’intervento statale nell’economia come risposta alla crisi del ’29, che caratterizza anche l’Italia fascista, quale agente di una “rivoluzione passiva” nel XX secolo. Questa nozione compare nella medesima nota, quando definisce la formazione degli stati moderni nell’Europa continentale come “reazione-superamento nazionale” della Rivoluzione francese, aggiungendo essere questo un “motivo essenziale per comprendere il concetto di ‘rivoluzione passiva’” (Q10, 1358 e 1361).

In una nota di poco successiva, torna sulle analogie tra il periodo post-napoleonico e quello successivo alla Grande Guerra per osservare che la “rivoluzione passiva” è “il più importante tratto da studiare” del dopoguerra (Q15, 1824). Il 1917 è ricompreso nella “frattura storica” della Grande Guerra. Il dopoguerra costituisce il momento genetico della risposta delle classi dirigenti europee nei termini di una “rivoluzione passiva” adattata alla società di massa, che nella grande depressione degli anni Trenta assume una forma più definita. In questo modo, Gramsci giunge a rovesciare l’intera prospettiva adottata nei primi anni del dopoguerra, che non contemplava tra le possibilità storiche quella di una ‘rivoluzione senza rivoluzione’. Quale sia il posto riservato all’esperienza sovietica nella “rivoluzione passiva” del dopoguerra resta un punto interrogativo nei Quaderni. Gramsci sembra lasciare intenzionalmente aperta una simile questione, anche se la sua critica del deficit di egemonia politica visibile nell’Unione Sovietica sembra implicare una prospettiva di subalternità alla forma di egemonia rappresentata dalla “rivoluzione passiva”.

CONCLUSIONI

A differenza di molti intellettuali europei che all’epoca hanno libertà di informazione e di movimento (e persino la possibilità di visitare l’Unione Sovietica), Gramsci non adotta la grande depressione del 1929 come un criterio per stabilire il primato della ‘civilizzazione’ sovietica sul capitalismo liberale. E a differenza della maggior parte dei comunisti, non vede la ‘modernità alternativa’ sovietica come un’esperienza dotata di un completo senso di autosufficienza, dato il suo carattere non capitalistico. Il suo fuoco analitico si concentra sulle connessioni tra la cesura rappresentata dalla Grande Guerra, la lunga crisi europea del dopoguerra e la difficile affermazione di nuove forze egemoniche globali. In questo contesto egli inserisce l’esperienza sovietica. Il suo dilemma non è soltanto costituito dai motivi del fallimento della rivoluzione in occidente, ma insieme ad esso dall’insufficiente sviluppo di una forza egemonica nella Russia postrivoluzionaria. Un trasparente scetticismo e pessimismo lo porta a elaborare l’idea che la “rivoluzione passiva” del secolo precedente si ripresenti dopo la Grande Guerra sotto forma della supremazia dell’americanismo su scala globale e del fascismo in Europa, mentre il nuovo ordine legato alla “costruzione del socialismo” stenta a emergere. Il campo di possibilità aperto dalla ‘rivoluzione contro il Capitale’, a meno di vent’anni di distanza, appare deperito e circoscritto, vincolato dall’interazione di forze complesse, limitato dall’effettiva capacità delle soggettività postrivoluzionarie.

Così la scrittura dei Quaderni rivela la distanza consumatasi tra Gramsci e il mondo della sua appartenenza ideale e politica, che è documentata per diversi aspetti nella sua corrispondenza, nelle testimonianze postume e in altra documentazione (Vacca, 2012_______. Vita e pensieri di Gramsci: 1926-1937. Torino: Einaudi, 2012.). L’angoscia per la mancata liberazione e i crescenti sospetti circa la possibilità che i suoi compagni di partito lo abbiano condannato una seconda volta al carcere di Mussolini esercitano un peso opprimente che i biografi non possono cessare di valutare. Nello stesso tempo, il suo dissenso sulla strategia politica del Comintern e la dottrina del “socialfascismo” presenta riflessi nei Quaderni. Tuttavia, esso non esaurisce in alcun modo le motivazioni e lo spazio problematico delle note dedicate all’esperienza sovietica e comunista. Le tracce di continuità e di (prevalente) discontinuità visibili tra il periodo pre-carcerario e gli anni della prigionia ci inducono a svolgere un’ulteriore considerazione.

Lo sguardo retrospettivo di Gramsci in carcere implica l’esigenza di fare i conti con una sconfitta storica. Nel 1924 egli aveva stigmatizzato l’esperienza dei comunisti italiani come una sconfitta, un argomento che dopo l’ottobre tedesco poteva estendersi a tutti i comunisti europei. Nel 1926 aveva ammonito la maggioranza del partito russo circa il pericolo di distruggere l’unità del gruppo dirigente e con essa l’eredità rivoluzionaria, separando gli interessi dello Stato sovietico dal movimento mondiale. La rottura tra i successori di Lenin si era poi consumata nel modo più traumatico, che date le premesse gramsciane non poteva non costituire una perdita di prospettiva. Nei primi anni Trenta, la sua riflessione solitaria emana un simile assillo ed egli giunge a elaborare una categoria politica che è metafora della sconfitta subita dai rivoluzionari nel dopoguerra, la “rivoluzione passiva”. Qui si può vedere in controluce il duplice volto della nozione gramsciana di egemonia. L’egemonia è nei Quaderni un concetto volto a illuminare la complessità delle strategie delle classi dirigenti che non si possono ridurre al mero esercizio del potere ma implicano una concezione sofisticata dell’autorità, della sovranità, della relazione tra governanti e governati. Nello stesso tempo, costituisce una lente per leggere i motivi della sconfitta subita dal “partito mondiale della rivoluzione” in Europa e per misurare i caratteri e i limiti del socialismo sovietico, la sua autentica capacità di incorporare e costruire consenso, la sua legittimità domestica e internazionale, il suo posto nel mondo.

Una simile ottica distingue radicalmente Gramsci dagli altri comunisti dell’epoca. Egli non è collocabile in nessuna delle principali tendenze del bolscevismo e del comunismo degli anni Venti, anche se ne condivide largamente i linguaggi (a cominciare dalle metafore militari) e la cultura politica. Ma ciò non nasce semplicemente da un peculiare posizionamento politico e neppure da una tragica condizione psicologica. Nasce da una dimensione intellettuale e culturale che gli consente di riconoscere e pensare la sconfitta fuori dal canone del dramma necessario e provvidenziale lungo il cammino irreversibile verso un avvenire socialista, che segna la mentalità comunista del suo tempo (Hobsbawm, 2003HOBSBAWM, Eric. Interesting Times: A Twentieth Century Life. London: Abacus, 2003.). L’esperienza della sconfitta porta invece Gramsci a pensare la molteplicità delle possibilità storiche e a interrogarsi sulle inadeguatezze della propria strumentazione concettuale e politica: un antidoto alle forme di identificazione che egli stesso aveva praticato e che raggiungono l’apice dogmatico negli anni Trenta. Nel panorama del comunismo dell’epoca sarebbe vano cercare un approccio di questa natura, non soltanto nel mondo ufficiale staliniano e nel Comintern, ma persino nel dissenso di matrice trockista. Sotto questo profilo, è più facile accostare la visione gramsciana, con tutte le ovvie differenze del caso, a quella di intellettuali contraddistinti da un’etica della responsabilità piuttosto che dalla militanza politica, come Walter Benjamin e la sua concezione della storia come possibilità o come il Marc Bloch della “strana disfatta”.

Gramsci tiene ferma una comprensione degli eventi contemporanei in termini anti-deterministici, rivolgendosi a una posterità che sa non essergli dato, molto probabilmente, di conoscere. La sua è una visione nel contempo dilemmatica e analitica, che continua a vedere la cesura della Grande Guerra e della Rivoluzione e lascia aperte possibilità diverse al futuro, ma si fa consapevole dei vettori e delle forze storicamente determinanti. Queste considerazioni possono contribuire a illuminare il senso ultimo della relazione tra Gramsci e la Rivoluzione del 1917, ma anche a spiegare la lunga durata delle categorie di pensiero politico da lui create nella sua prigione.

REFERÊNCIAS

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  • 2
    La visione gramsciana dello Stato bolscevico è stata ben rimarcata, limitatamente al 1918-19, da RAPONE, 2011RAPONE, Leonardo. Cinque anni che paiono secoli: Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919). Roma: Carocci, 2011., pp. 375-379.
  • 3
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  • 4
    Relazione al Comitato centrale del PCd’I, febbraio 1925, in CPC, p. 473.
  • 5
    Relazione al Comitato centrale del PCd’I, agosto 1926, in APC.
  • 6
    Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, doc. 42, DANIELE, 1999DANIELE, Chiara (Org.) Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca: Il carteggio del 1926. Torino: Einaudi, 1999. doc. 42, p.404-412., pp. 404-412.
  • 7
    Ivi, doc. 49, pp. 435-439.

Publication Dates

  • Publication in this collection
    Sep-Dec 2017

History

  • Received
    03 July 2017
  • Accepted
    08 Sept 2017
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